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Piazza San Carlo e quella notte che mi ha cambiato la vita

Piazza San Carlo

Piazza San Carlo, in quella notte, mi ha cambiato la vita. Forse lo ha fatto in tutti i sensi che si possono immaginare o forse lo ha fatto anche oltre l’immaginabile.

I dettagli di una notte di paura sono piccolissimi ed infidi, e si infilano nei pensieri all’improvviso, quando meno te lo aspetti, e pungono sulle ferite rimarginate ma ancora sensibili, per sempre sensibili.

Sono passati tre anni esatti da quella notte di paura ma tutti i dettagli sono ancora lì, non hanno cambiato posto, hanno trovato collocazione ed hanno la stessa identica forma ben definita.

I dettagli fanno sempre la differenza, nel bene e nel male. 
I dettagli valgono tutto.
I dettagli ti cambiano la vita.

Diverse volte ho rivisto quelle immagini ma quando schiacciavo play chiudevo gli occhi e mi ritrovavo immersa in quello stesso caos; oggi ho allineato dei video con i miei ricordi e niente, non c’era niente di diverso. Lo stomaco si fa piccolo ma gli occhi restano spalancati, non tremano più, resta solo quella consapevolezza che Piazza San Carlo, mille e novantasei giorni fa, mi ha cambiato la vita. E mi ha reso più forte.

Qui di seguito i resoconti di quella stessa notte a pochi giorni di distanza e di “quella notte” 365 giorni dopo.

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Il resoconto di quella notte un anno dopo (2018)

Inutile nascondersi: certe cose ti segnano, e ti segnano per sempre. Un anno fa lottai in piazza San Carlo a Torino per tenermi stretta questa vita ed il ricordo di quegli istanti, il ricordo di quella notte, mi creano uno sgomento che non pensavo potesse mai arrivare a toccare me. Ed invece, coinvolta a pieno regime, con paure che forse non mi abbandoneranno mai, con paure con cui convivi e che, però, ti aiutano anche a capire i tuoi limiti e a spronare te stessa per oltrepassarli. Il punto è che certe cose non fanno solo male, certe cose faranno male per sempre, le cicatrici restano cicatrici ma guardandole da un’altra prospettiva quei segni non sono ricami dell’anima?

Le mie mani e la mia mente si rifiutarono di mettere insieme i pezzi per un po’ ma cinque giorni dopo riuscii a partorire questo pezzo per dare testimonianza di un 3 giugno che sarà sempre un sogno infranto al pari di un ricamo che ha saputo rendere la mia anima un po’ meno bella ma certamente più forte.

Ringrazio ancora sportface.it che mi diede quest’opportunità.

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Piazza San Carlo, il resoconto della paura (2017)

E’ stato uno strano lunedì quello della scorsa settimana, un lunedì tra un mix di malumori, incomprensioni e scadenze pressanti, un lunedì di quelli che ti fa maledire la fine del weekend, un lunedì vero e proprio insomma. Ecco perché quella sera accovacciata sul mio divano e con il mio amato mac fra le mani, cercavo qualcosa che mi facesse un po’ distogliere l’attenzione dai mille pensieri che mi frullavano nel cervello, che mi desse una scossa. Cercavo senza sapere dove posare realmente gli occhi fin quando sono stati gli occhi stessi a trovare luce.

“Maxischermo in piazza San Carlo a Torino con piattaforma riservata a giornalisti e addetti stampa”, avevo letto sul web. Un brivido lungo la schiena, avevo già capito, la mia mente aveva già fatto un salto lungo circa 150 km, il mio cuore non aveva neanche saltato, era già là. Dovevo provarci e riuscirci. Sono partite circa 30 mail dal mio computer quella sera, trenta mail che hanno quasi tutte trovato risposta: “Ci mandi i suoi dati e le faremo sapere”, manco avessi presentato una canzone per il festival di Sanremo.

Poco meno di 48 ore dopo, la risposta attesa da tutta una vita: “Il suo accredito è stato accettato, ci vediamo sabato, buon lavoro”. Mezz’ora di salti incontrollati ed una svariata serie di note vocali alla collega che avrebbe vissuto con me quella medesima esperienza.

“Daniele vado a Torino sabato, chiedimi quello che vuoi”, la conferma più piccata ad un pezzo della famiglia Sportface. Già lo so, starete pensando questa è pazza, e in fondo normale non lo sono mai stata, ma io amo la mia follia, la sola, insieme a questa perseveranza e a questa smisurata passione, che mi permetta di raggiungere ciò che ho sempre sognato o molto più banalmente di fare ciò che amo di più, in spicci, di essere felice.

I convenevoli ve li tralascio: l’attesa, la cura maniacale nel preparare lo zaino e gli attrezzi del mestiere, l’ansia a diecimila, l’euforia di poter essere in mezzo ad un popolo di 30 mila persone che condividono i tuoi stessi colori e di poterlo fare da un posto privilegiato, quello di giornalista, l’adrenalina di poter scrivere della tua squadra del cuore che per l’ennesima volta si gioca il “tutto in una notte”, l’orgoglio di esserci, i pezzi del puzzle che d’improvviso s’incastrano ed un sorriso quasi spavaldo di fronte a quel lunedì nero che sembra d’un tratto così lontano. E poi il viaggio, la bandiera che sventola, i cori su cori e su cori. Ribadisco: lo so che sono pazza e che non mi capirete, ma non sono qui per questo. Io non voglio essere capita per ciò che faccio o ciò che provo quotidianamente, vorrei essere capita per ciò che ho sentito in quella lunga notte.

Piazza San CarloPerché tra un flash, una battuta, uno scambio d’opinioni, gli scongiuri verso un cielo grigio, una diretta facebook, perché tra un gol di Cristiano Ronaldo ed un gol di Mario Mandzukic erano circa le 21.45 quando quell’ultimo scorcio di stagione ha preso avvio. La Juve non gira, il centrocampo è lento e si è abbassato troppo, la difesa pare meno solida del solito, Higuain è così fuori dal gioco e poi c’è il talento cristallino di uno su cui ho scommesso non appena l’ho visto calciare un rigore con la maglia rosa del Palermo, ha 23 anni, si chiama Paulo Dybala e questa sera pare imprigionato nelle sue stesse paure.

Casemiro e Ronaldo fanno il resto ma proprio quando cerchi conforto nei tuoi fratelli bianconeri,quando il tuo sguardo si scontra con il silenzio assordante di un’intera piazza che non riesce a spiegarsi il perché ancora una volta, sul più bello, tutto sfumi, ecco che quel silenzio si tramuta in un rumore che sa tanto di spari, ecco che il cuore ti si ferma e che la mente vola non a 150 km di distanza ma là dove non pensi possa esistere vita.

Una frazione di secondo, una folla impazzita che sta correndo proprio nella tua direzione, lo sforzarsi di trovare una lucidità che non fa capolino nel tuo cervello ma che, grazie a Dio, non soffoca quell’istinto di sopravvivenza a cui ti aggrappi come se fosse l’ultimo brandello di vita. Lo zaino in spalla e la mano della tua collega che hai afferrato e trascinato il più lontano possibile: non c’era tempo per le domande, c’era da correre.

Circa 400 metri di corsa disperata evitando di calpestare la gente a terra e provando a non scontrarti con nulla, quelle mani che si disuniscono per un attimo, ma gli occhi che non si perdono e le dita nuovamente intrecciate. Il riparo sicuro è quello di un bar in cui ti fermi e ti ritrovi accerchiata di persone che hanno sangue ovunque, che urlano e piangono e non sanno il perché. “Una bomba, hanno sparato, arrivano” ed il terrore a quel punto trova spazio in un bagno in cui gli affanni di un respiro trasalito rimbombano a più non posso. E adesso cosa facciamo? Potevo lasciare che la paura di morire avesse la meglio sulla voglia di vivere? Noi, fratelli sconosciuti, ci siamo abbracciati, abbiamo condiviso il terrore e, quando abbiamo ripreso a respirare, l’umanità.

Ho visto gente che si consolava senza sapere cosa dire e chi avesse davanti, ho visto ragazzi infermieri in borghese bianconera, prendersi cura del prossimo ferito, ho visto gente che predicava calma, bambini accolti da mamme improvvisate ma oneste, soccorsi pronti e polizia attenta, cellulari prestati perché sopportare anche che le proprie famiglie piangessero sarebbe stato troppo. Ho rivisto quello scenario di una piazza devastata, perché c’era da recuperare la borsa della tua amica che lì dentro aveva anche le chiavi della macchina e che, nuovamente grazie a Dio, dopo poco era come un miraggio fra le tue mani, e ho capito che la guerra era passata di lì. C’era d abbandonare Torino, la città dei tuoi sogni, e c’era quello sgomento nel cuore che non si dava pace e che ti impediva anche di capire quanto i miracoli esistessero, quanto tu stessa fossi un miracolo.

Piazza San CarloIl ritorno a casa e la notte insonne pensavo facessero il resto, mi sbagliavo. Il resto lo hanno fatto gli occhi e le mani di mio padre e mia madre, dei miei fratelli, che sono stati la mia ancora di salvezza in quel mare in burrasca. Non potevo permettere a nessuno di non farmeli vedere più, di non riassaporare più i loro profumi, di non alimentarmi dei loro sorrisi. Io non so a cosa hanno pensato quelle trentamila persone, io so che ho pensato a loro ed è così che mi sono salvata.

Ma ancora non era finita e forse questa storia non avrà una fine. Quando ho rivisto le immagini il giorno dopo, quando le parole hanno trovato una collocazione di senso compiuto, quando i milioni di messaggi che i social ed il mio cellulare mi hanno recapitato ribadendomi che fossi più viva di quanto in realtà credessi, ho trovato anche tutte quelle lacrime che fino a quel momento non avevo ancora versato.

Ed eccole le domande che arrivano puntuali come una sentenza. E non sono né i perché, né da dove è nato tutto ciò, niente del genere, le domande che mi hanno martellato il cervello erano che fine avessero fatto tutti i disabili che avevo attorno, gli stessi che avevo difeso poco prima non appena la gente si era messa nella loro traiettoria impedendogli di vedere la partita; che fine avesse fatto quella signora tanto simpatica con cui avevo condiviso le ansie da Champions dal pomeriggio, che fine avesse fatto quel giornalista tanto carino dagli occhi azzurro cielo, e ancora di più dove fosse quella bimba che si era seduta accanto a me pochi istanti prima del triplice fischio, che mi aveva chiesto in che porta dovessimo segnare e che al gol di Mandzukic mi aveva stretta così forte come se mi conoscesse da sempre o come se volesse donarmi un pezzetto del suo piccolo grande cuore. Ho pregato per loro, spero che Dio mi abbia ascoltato anche questa volta.

Adesso arriva il bello. Sognavo di scrivere il mio primo articolo sulla mia Juventus in modo totalmente diverso, sognavo di commentare di un Gigi con la coppa al cielo, sognavo di raccogliere le emozioni di quel popolo così tanto simile a me. E sognavo anche di piangere mentre digitavo ogni singola lettera su questa tastiera. Sognavo di avere il cuore a mille, proprio come adesso. Ecco perché so che un giorno sarò di nuovo lì, perché che sono folle l’ho già detto? Non mi lascerò vincere dalla paura. Ci vorrà tempo? Ci vuole sempre tempo. Non ho mai visto sogni realizzarsi con il solo schioccare delle dita.

L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?

E a tutti questi sogni se n’è aggiunto uno: mi piacerebbe guardare negli occhi quel talento cristallino con il numero ventuno sulle spalle e mi piacerebbe che ci scambiassimo un po’ di paure. Così diverse e in fondo così uguali. Lui e la paura di accarezzare un pallone in quel di Cardiff, io e la paura di non poter più sentire sussultare il mio cuore come quel 13 maggio 2012 quando cambiai la mia foto di copertina su facebook lasciando che lo sguardo dell’uomo più uomo e campione più campione che conosca si commuovesse dinanzi al tributo più meraviglioso mai visto. Il nesso è così semplice ed immediato tra  due. Ecco, vorrei anche questo dalla mia vita. Perché se c’è una cosa che ho imparato da questa tremenda vicenda è che l’amore vince sempre. E allora che vi siate aggrappati a chissà quale pensiero in quegli istanti, all’amore per i vostri figli o per i vostri compagni, per i vostri amici, per le vostre madri, per voi stessi o a Dio, non fa differenza: non lasciatevi vincere dalla paura, lasciatevi vincere dall’amore.

 

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