È scattata l’ora dei saldi 2024 e dopo un mese di cene, pranzi, aperitivi e colazioni H24 che manco alla Casa Bianca, il minimo che si possa fare è concedersi una bella seduta di shopping terapeutico. Sì perché poco importa se le vostre maniglie dell’amore si siano trasformate in maniglioni antipanico, e poco importata che giriate con il bottone slacciato dalla terza fetta di pandoro con mascarpone consumata alla cena degli amici dell’asilo che non vedevate, appunto, dall’asilo, nel momento in cui scocca l’ora dei saldi approfittarne è il minimo sindacale per iniziare il 2024 con il piglio giusto.

E così, forte della mia autostima cresciuta negli ultimi 5 giorni grazie all’oroscopo di Simon and Star che senza giri di parole ha buttato lì un “Toro voto 10, è il tuo anno”, non potevo esimermi ed in questo primo venerdì di gennaio mi sono armata di tutto il mio charme per regalarmi pochi, pochissimi, quasi nulli, momenti di gloria.

Saldi 2024, mission impossible?

Saldi 2024, davvero una mission impossible? No, nient’affatto. Scordatevi le code chilometriche, scordatevi il questo o quello, scordatevi il “ma forse mi fa grassa”, ho stilato una super guida che vi farà uscire da quei camerini in tempi record come se stesse andando ad un Matrimonio, possibilmente il vostro…certo senza soldi e senza partner ma questo è un altro discorso.

Ora aggiungete una nota alla lista delle 8.267 già presenti sui vostri smartphone, perché a sto giro si svolta.

Sette consigli per lo shopping perfetto

Consiglio numero 1: il BUONUMORE. Se al mattino vi svegliate con il piede sbagliato, state a casa. Senza buonumore vi sta male tutto.

Consiglio numero 2: UOMO RICCO O CARTA DI CREDITO RICCA. Se siete di buonumore riuscite a vedervi come la più figa del reame che manco Biancaneve e vorrete comprarvi pure il braccialetto da un euro dal venditore ambulante nel parcheggio. Non vedo altre soluzioni.

Consiglio numero 3: NON PARCHEGGIATE A CANICATTÌ. Che poi guarda caso piove, guarda caso i capelli si arricciano, guarda caso gli occhiali si appannano, e guarda caso uscite con 92 mila pacchetti che ora che arrivate alla macchina hanno già fatto il primo lavaggio. Ogni riferimento è puramente casuale.

Consiglio numero 4: NEL DUBBIO, COMPRATE. La tattica ci penso e poi ripasso non funziona. Ai saldi non c’è pietà, vi strappano qualsiasi vestito dalle mani, figuriamoci se lo posate un secondo. Rimetterlo a posto significa perderlo. E anche la tattica made in Mary Seven “lo imbosco in fondo o nella pila sbagliata e ripasso al prossimo stipendio”, non funziona. Sia perché al prossimo stipendio sarete comunque povere, sia perché vi costa un litigio con la commessa, sicuro.

Consiglio numero 5: OCCHIO ALLE PUBBLICITÀ INGANNEVOLI. Se leggete “Saldi 2024” fino al 75%, il 75% vale sempre e solo sull’unica t-shirt che non usereste nemmeno per pulire il pavimento di casa vostra dopo un hangover.

Consiglio numero 6: FATEVI I CONTI PRIMA DI ARRIVARE ALLA CASSA. Innanzitutto perché eviterete figure di merda, e poi perché è un attimo rendersi conto che state andando in banca rotta fraudolenta. E se state andando in banca rotta fraudolenta scappate. Non con i pacchi sottobraccio, ci manca solo quello, scappate e chiudetevi in casa e non uscite più mica che cascate in tentazione.

Consiglio numero 7: VESTITEVI COME SE FOSSERO I SALDI 2024 ESTIVI. Temperatura percepita nei negozi 9 mila gradi. E quando vedrete lo scontrino raddoppierà pure.

Saldi 2024, note aggiuntive di vitale importanza

Ancora un paio di appunti per una giornata perfetta.

Le partenze intelligenti. Scordatevi di presentarvi alle dieci del mattino o alle cinque del pomeriggio. La Salerno – Reggio Calabria pare il percorso vita del Parco di quartiere in confronto mentre voi un amico nemmeno troppo intimo di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre in coda per Gerusalemme con all’orizzonte quel jeans a vita bassa ideale per ogni occasione che, inevitabilmente, non sarà della vostra taglia.

Per chiudere: io lo so che Tezenis, Yamamay, Intimissimi, Calzedonia e chi più ne ha più ne metta, abbiano delle cosine sensazionali, ma il completino intimo per una notte di passione solo se avete in rubrica più di 152.727 numeri di uomini (o donne) perché altrimenti, se non altro per la legge dei grandi numeri, la notte di passione non la vedete manco con il binocolo.

Alla luce di questa mini guida, lo shopping “Belen Scansati” è servito. Perché proprio “Belen Scansati?”. Perché quando dicono che lo shopping sia anche una seduta terapeutica, è vero. Perché entrare in un camerino con una pigna di vestiti da 20 o 200 euro non cambia, siete tutto ciò che va oltre quell’etichetta e quel prezzo. E poi guardatevi allo specchio e ditelo forte che siete belle: con il vestito corto, con la tuta, con gli shorts, con il cappotto, in pigiama, truccate, struccate, come vi pare…basta non avere paura degli specchi per scorgere ciò che siete. Viziatevi un po’, concedetevi una terapeutica seduta di shopping e fatelo con leggerezza, a volte basta poco per sentirsi e vedersi belle. Ma belle quanto? Belle tanto, fino alla “Belen, scansati proprio”.

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Goodbye 2023, lo dico così, tutto d’un fiato e lo guardo negli occhi quest’anno che se ne va senza sensazioni malinconiche o rabbia o rancori, ma con consapevolezze.

Non sono mai stata una grande amante dei parchi giochi, a Gardaland penso di esserci stata appena 2 volte, soffro un po’ di vertigini, l’ansia prende il sopravvento quando devo salire su giostre probanti che mi fanno perdere contatto con la realtà…eppure io sulle montagne russe ci vivo. E questo 2023 me lo ha spesso ricordato.

Un saliscendi di emozioni e sconvolgimenti, dalle risate ai pianti, dai pianti alle risate, dalle decisioni certe alle titubanze, dai “vorrei ma non posso” ai “vaffanculo, mi gioco tutto”. Così eh. Cinque minuti di straordinaria follia, e poi altri cinque o più di insulsa pigrizia. Se mi guardo indietro non so nemmeno da dove partire, dove raccattare i ricordi e le cose belle, come interpretare le lunghe giornate no. Ma c’è tutto, proprio tutto in questo 2023.

Ho avuto paura.
Ho riso a crepapelle.
Ho viaggiato.
Sono rimasta immobile.
Ho avuto il cuore a pezzi ed il cervello in frantumi.
Ho collezionato domande.
Ho chiesto spiegazioni.
Mi sono data risposte.
Ho mangiato schifezze.
Ho cucinato per me.
Ho preso ago e filo e dato un abito alla mia anima.
Ho camminato all’aria aperta.
Ho consumato il divano.
Ho pianto.
Ho pianto ancora.
Ho pianto di nuovo.
Ho capito che piangere, poi, mi fa stare meglio.
Ho osato.
Ho mandato quelle mail.
Ho viaggiato.
Mi sono arrabbiata.
Ho accolto a braccia aperte nuovi progetti.
Mi sono emozionata.
MI sono maledetta e stramaledetta.
Ho fatto un percorso.
Ho odiato (e la odio tuttora) la mia cellulite.
Ho indossato la gonna.
Ho litigato con gli specchi.
Ho amato, incondizionatamente.
Mi sono sentita amata.
Sono stata amata, probabilmente.
Ho sentito, dopo tanto tempo, il mio cuore battere.
Ho fatto i conti, in tutti i sensi in cui si possano fare i conti.
Ho cantato a squarciagola.
Ho presentato un libro.
Ho fatto ridere la gente.
Ho visto il Golden Gala dal vivo.
Ho girato Firenze in bicicletta.
Ho mangiato la carbonara a Roma. (Adoro).
Sono tornata a casa.
Ho giocato ad Uno per ore ed ore.
Riccardo.
Lorenzo.
Alice.
Aurora.❣️​
Ho avuto coraggio.
Sono stata debole.
E poi forte.
Ho aperto la porta.
Ho fatto l’amore.
Ho letto e riletto le conversazioni su whatsapp.
Ho messo la crema solare.
Ho sognato.
MI sono fatta schifo.
Ho detto la verità, sempre.
Ho osservato le nuvole.
Ho fatto la valigia.
Ho visto Roberto Baggio.
Ho contemplato il letto sfatto.
Ho fatto dei gran casini.
Ho amato le cose semplici.
Ho perso tempo.
Sono stata ferita.
Sono stata delusa.
Sono stata usata.
Ho accettato.
Ho messo punti.
Ho perdonato.
Ho scritto una lettera.
Ho respirato.
Ho fatto figure di merda.
Ho provato imbarazzo.
Non ho perdonato.
Ho sbagliato.
Ho sbagliato ancora.
Ho sbagliato di nuovo.
Ho scritto tanto.
Ho dato fiducia.
Ho ascoltato il silenzio.
Sono stata lì, lì nel mezzo.
Ho avuto pazienza.
Ho guardato delle serie tv.
Ho fallito.
Ho tentato.
Ho sorriso.
Ho fatto l’albero di Natale.
Ho fatto pace.

Goodbye 2023

Trecentosessantacinque giorni di montagne russe senza sosta per scoprire, in fondo, che sono sempre più forte di quello che penso, che la mia scelta è quella di non essere normale ma felice e che non sono sbagliata ma…unica.

“Alla faccia di chi aveva calpestato il suo essere per farne un’altra donna. Lei avrebbe deciso di rimanere lei e, come lei, nessuna al mondo”.

La cosa migliore che possiamo fare quando ci troviamo così vulnerabili in quel processo di rivelazione a noi stessi è offrirci tutta la tenerezza e tutta l’empatia di cui siamo capaci. La nostra più grande salvezza, forse, è essere disposti a metter piede, sia pur per breve tempo, in quelle zone abbandonate in rovina e senza perdono che abbiamo dentro“.

Sono i tuoi straordinari errori che definiscono chi sei“.

Goodbye 2023 e grazie.
Caro 2024, non ti chiedo proprio nulla, dopo un anno così so per certo di essere pronta a tutto, tu lo sai, però, che in te si nasconde il mio sogno più grande.

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Immaginati alle prese con uno di quei sabati pomeriggio in cui l’inverno fuori dalla finestra è gelido ma dentro al tuo cuore trovi persino ghiaccio e neve. Immaginati alle prese con una tazza di tè caldo che tieni fra le mani per provare a scaldarti un po’, mentre il fumo ti appanna gli occhiali ed il naso si arriccia sentendo il profumo di biscotti caldi.
Immaginati anche girovagare tra un negozio e l’altro, in una seduta di shopping che sa più di terapia che di reale esigenza, ed immagina di provare 200 capi che non donano garbo al vostro look, che vi fanno il culo troppo grosso, che “Cosa lo compro a fare tanto non ho occasione di metterlo” e ancora “Questo è l’unico che potrebbe fare al caso mio ma figurati, costa un botto”; poi però c’è un maglioncino insignificante posto in una pila nell’ultimo scaffale in fondo, dal colore non definito, di una forma semplice e senza particolari vezzi, potrebbe star bene con un jeans classico o un leggings nero asciutto, non spicca, ma in quel momento ti rappresenta, lo indossi ed è così caldo, morbido, apatico ma giusto, giusto per te…

…ecco le canzoni non sono forse un po’ così? Non sono maglioni di lana della misura giusta che si prendono cura dei brividi di freddo? Non sono anche solo la possibilità di vedere navigare le emozioni in una melodia?

Io non riesco a smettere di ascoltare l’Inverno, canzone di Angelica Bovo di X-Factor e scritta da Tananai. L’ho indossata al primo ascolto, è il maglione che stavo cercando. Un testo semplice, una voce sublime, una melodia che in altri giorni assomiglierebbe tanto di più ad un coltello sulle vene e che invece in queste settimane così fredde riesce a tenere bada il tremolio, le mani gelide e persino gli occhi socchiusi. L’inverno è un maglione con il collo alto in cui mi rannicchio fino al naso, è una carezza su un volto stanco, è una mano che mi fa i grattini districando i capelli “capriccio” ed ingarbugliati.

Dare un nome alla follia di chi ha sofferto e non si vendica…

Vorrei venire lì dove fa freddo ma non nevica“…dove i gradi sono pochi ma non vanno sottozero, dove qualcosa non torna ma in fondo cambiare stanza o addirittura uscire dalla porta di casa significa percorrere una strada nuova e sconosciuta, trafficata o isolata, insolita e senza orizzonte a portata di mano.

Ho preso a pugni lo specchio”, le ho tentate tutte, questa notte, per far pace con me stessa, per riuscire a scorgere un riflesso che non somigli troppo né alle rughe né ai rimpianti, per asciugare gli occhi e presentarmi lì, al cospetto della mia coscienza, con coraggio ed in pace con me stessa. In una parola, mi sono guardata allo specchio a caccia di conforto e l’ho preteso dall’unica persona che può prendersi davvero cura di me.

Sai pensavo che potrei fare pure una pazzia, di quelle che non si dimentica, sai pensavo che potrei dare un nome alla follia di chi ha sofferto e non si vendica“…il senso di questo pezzo è racchiuso qui, attraversare il dolore e non cercare vendetta, viverlo fino in fondo in una sofferenza composta e poi trasformarlo in una magia prendendosi tutto il tempo di cui si ha bisogno.

“E scusa mi dimenticavo il bello di quei giorni, mi fa male quando non ci sei…”, i giorni belli non vanno dimenticati, ma accettati. Anche se sono acqua passata, anche se così belli, non torneranno.

Anche se è tutto diverso io ti aspetto, ti aspetto“. Il punto non è aspettare lui o lei, il punto non è proprio cosa si aspetta. Saper godere dell’attesa che divide un’emozione dall’altra, breve o lunga che possa essere, intensa o leggera, eccolo il punto.. La felicità e le emozioni sono un contatto, sono il panorama che godi da un punto straordinario in cima al Mondo ma che non dura più di una manciata di attimi, in tutto il resto del tempo scorre la vita.

L’Inverno – Angelica Bove

Sto pensando a dove sei
Fossi in me non chiamerei
E poi che ora è in America

Sto pensando a dove sei
Qui c’è sempre quella luna ed è una luna che si dedica

Volo via, vorrei venire lì dove fa freddo
ma non nevica

Anche se
Anche se è tutto diverso
io ti aspetto, ti aspetto
Ho preso a pugni lo specchio
Sto anche meglio, questa notte non ci porta via l’inverno

Sai pensavo che potrei
fare pure una pazzia, di quelle che non si dimentica
Sai che pensavo che potrei dare un nome alla follia
di chi ha sofferto e non si vendica

Volo via, vorrei venire lì dove fa freddo
ma non sembra

Anche se
Anche se è tutto diverso
io ti aspetto, ti aspetto
ho preso a pugni lo specchio
Sto anche meglio, questa notte non ci porta via

E scusa mi dimenticavo il bello di quei giorni
mi fa male quando non ci sei, ti aspetterò pensandoti

Anche se è tutto diverso io ti aspetto
Ti aspetto

Testo by AngoloTesti

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È il minuto 83 di Milan – Fiorentina, Francesco Camarda si sfila la casacca, Pioli ha scelto lui. 15 anni, 8 mesi e 15 giorni e questa sera se la ricorderà per sempre, perchè è la sera dei sogni, è la sera dell’esordio in serie A, è la sera in cui ti guardi intorno e non ci credi.

Francesco Camarda non lo sa che da stasera potrebbe cambiare tutto o potrebbe non cambiare niente, ma è certo che il destino, la sua caparbietà, il suo talento, il suo percorso, la sua grinta, la sua passione, la sua fortuna, lo hanno vestito di un record che rimarrà nel tempo.

In google è già uno dei nomi più ricercati, si è sentito addosso il peso di 80 mila occhi, domani i giornali metteranno il suo viso fanciullesco in prima pagina, e pigieranno il piede sull’acceleratore dei paragoni, dei commenti, del “Può diventare più forte di…”.

Io non ho cercato nulla, non faccio la tuttologa e non voglio sapere altro. Da amante del calcio vorrei che la sua storia me la raccontasse lui. Con le manciate di minuti che il Milan gli concederà da qui a fine stagione, con le giocate di un ragazzino sbarazzino, con i gol, perché no, con l’entusiasmo di un 15enne coraggioso con un sogno grande quanto San Siro che somiglia tanto al tema di 5ª elementare, quando la maestra ti chiedeva: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Il calciatore. Francesco Camarda vuole solo fare il calciatore. Con la maglia del Milan, quella dell’Italia, con una qualsiasi altra maglia, a San Siro come al Bernabeu, al Tardini come nel campetto sotto casa. Non c’è alcuna differenza.

Lasciatelo sognare, lasciatelo sognare in pace.

Foto Twitter

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Tanti di voi non capiranno e forse è anche giusto così, ma a me basta sentire Rama di Pomm o Palio, in gerco comune, per ricoprire le mie pupille di un luccichio poco comune, o vedere le mie gote salire verso l’alto assecondando un sorriso.

La storia della Rama di Pomm potete leggerla QUI, io voglio parlarvi della mia Rama di Pomm.
Era il 1976, mamma e papà si erano sposati da poco e stavano finendo il trasloco, suonano alla porta, un signore, il buon Mario, dice: “Tra qualche settimana qui si farà il palio, ti va di partecipare?”. Ecco, è nato tutto da lì e papy me l’ha sempre raccontata in questo modo. Lui che è nato per tuffarsi di testa in qualsiasi cosa, lui che aveva sempre l’entusiasmo contagioso, la voglia di fare, un’energia per mille, lui che da quel giorno ha deciso di cucirsi addosso il blu del suo rione e farne una questione che andava forse oltre la logica, ma che sapeva emozionare all’inverosimile.

Per me novembre è sempre stato il mese del Palio, ma in realtà tutto l’anno gli ruotava intorno. Il conto alla rovescia partiva da lontanissimo. Magari a marzo incontravi qualcuno per il quartiere che potesse essere utile per un gioco, gli chiedevi in che via abitasse, e poi gli lanciavi un appuntamento “Tieniti pronto che ti chiamo”, e lo chiamavi per davvero ed ogni sì era quasi un sì per la vita perché, una volta entrato, non ne uscivi più.

La Rama di Pomm esiste da 75 lunghissimi anni, ha vacillato in più di un’occasione, ha vissuto le epoche degli inverni rigidi, delle contrade che si scontravano aspramente, l’epoca d un quartiere che si è rivoluzionato, di generazioni che sono cambiate e non hanno capito, non l’hanno amata come meritava, ha vissuto le epoche del covid, rimanendo ferma a guardare il tempo che passava e le soluzioni che sembravano scivolare via in lontananza, sbiadite fra un dubbio ed una legge che metteva solo i bastoni fra le ruote. Ed invece…75 anni dopo, è ancora qui. Siamo ancora qui. Con qualche modifica al regolamento che dà chance agli ex residenti di poterne fare parte, o che permette, per dirla tutta, a questa festa di essere coccolata ancora un po’ da chi l’ha amata veramente e non riuscirà mai a farne a meno.

E siamo ancora qui con orgoglio, dedizione, passione, con il tempo che manca ed un puzzle di infiniti pezzi sempre più piccoli e sempre più difficili da incastrare. La terza domenica di novembre, dopo una settimana di battaglia, dopo il calcio andato in scena a settembre, si spalanca persino il cielo, c’è un sole che fa invidia a quello del mese di giugno, c’è un quartiere che si anima, ci sono il blu, il giallo, il rosso ed il verde che predominano su quella strada che anche quest’anno non ne ha voluto sapere di contare quattro abitanti appena, ha preferito accerchiarsi di migliaia di persone, di bambini sognanti, e di 4 asinelli così buffi che sembra quasi impossibile diano un senso a tutto…ed invece.

E poi fra le tante gare c’è il tiro alla fune, specialità della casa. Papy ne ha vinti tanti, tantissimi, la maggior parte per dirla tutta, si appendeva a quella corta, la stringeva forte, urlava, sbraitava, si arrabbiava, si commuoveva e poi rideva…mentre tiravo, quest’anno, mi sono resa conto che sono 20 anni che anche io sto lì, attaccata a quella fune, con le scarpette che non scivolano e due piedi impuntati al meglio per provare a trascinare la mia squadra, anche se ultimamente ci sono riuscita poco. Però mi sono goduta il momento, un milione di voci intorno, quel tiraaaaa che ti smuove dentro, gli occhioni puntati addosso anche di quell’amico delle elementari che non vedi, forse, proprio dai tempi di uno zaino in spalla e del “vediamo chi arriva ultimo”.

La Rama di Pomm è un ritrovo dove il passato si scontra con il presente, dove alzi gli occhi al cielo e sai di avere (i migliori) spettatori anche lì, dove torni a casa con il profumo di frittella addosso, dove scorri le foto della mostra e ti commuovi, dove la serata delle premiazioni è “faccio la torta e ce la mangiamo insieme”.

Ed ogni anno, a prescindere dal risultato, la chiudi sempre alla stessa modo, concedendoti la più grande delle bugie: “Questa è l’ultima, giuro che è l’ultima”.

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I capelli color rosa, olilla, o azzurri, hanno solo dato colore ad un talento che di per sé le sfumature le conosceva già tutte, perché quel talento cucito addosso a Megan Rapinoe ha immerso il volto in un arcobaleno.

Il giallo delle giornate migliori, il rosso delle sfide trionfanti, il blu scuro quando sarebbe bastato tanto così per acciuffare quello che mancava all’appello, il nero per un tendine che ha fatto male troppo presto, in quell’ultima danza che sarebbe dovuta essere un lento così simile al ballo della 5ª liceo piuttosto che al suono di un pianoforte scordato.

Ma sfogliare lo spartito dall’inizio significa ripercorrere una carriera senza eguali che fa di Megan Rapinoe la direttrice d’orchestra perfetta ma anche una delle più grandi calciatrici di tutti i tempi. La bacheca brilla di un oro olimpico conquistato l’11 agosto 2012, a Londra, con il Giappone, rivale di sempre, e di due Mondiali vinti da protagonista assoluta, nel 2015 in Canada quando divise la scena con Carli Lloyd e Alex Morgan, battendo in finale, guarda un po’, il Giappone per 5-2, e nel 2019 in Francia, quando i gol furono tanti di cui uno, decisivo, nell’ultimo atto, dove con la sua nazionale a stelle e strisce ebbe la meglio sui Paesi Bassi per 2-0.

Ma sfogliando ancora, i colori balzano agli occhi e la musica si fa più forte: è il 2 dicembre 2019, per la seconda volta nella sua storia il Pallone d’Oro finisce anche nelle mani di una calciatrice, e quella calciatrice è proprio lei, Megan Rapinoe. A 34 anni è la più forte di tutte.

Le note stonate di una melodia dolcissima sono il non essere mai riuscita a vincere una finale di National Women’s Soccer League, stregata fino all’ultimo visto che anche lo scorso sabato, in quello che è stato l’ultimo atto dell’atleta 38enne, a vincere è stato il NY Gotham FC di New York per 2-1 proprio a scapito dell’OL Reign di Seattle. Ma l’ingiustizia totalizzante l’ha consumata il terzo minuto quando quel tendine d’achille faceva troppo male e l’unica via di fuga dal dolore era la strada che conduceva alla panchina, troppo breve per rivivere tutto quello che è stato ma lunga abbastanza per godersi il tributo di una standing ovation da pelle d’oca, condita dall’abbraccio dell’altra capitana, sua compagna di nazionale, Ali Krieger.

E così, mentre una mano asciugava le lacrime e l’altra ringraziava un pubblico che è sempre stato dalla sua parte, negli occhi di chi si è goduto ogni scena di una mirabolante carriera fatta anche di giocate di gran classe al di fuori del terreno di gioco, come la campagna di sensibilizzazione per una parità salariale tra uomini e donne, nei pugni stretti perchè “non doveva finire così”, c’è ancora spazio per i ricordi, per quell’esultanza a braccia aperte dopo ogni gol che forse, fino ad oggi, ha sempre significato “Eccomi qua, ci sono anche io“, ma che da domani andrà verso un messaggio più profondo, come a dire Lo spettacolo è finito, grazie di tutto mio caro football” nell’eco di un’unica risposta “Grazie a te, Megan Rapinoe, campionessa senza tempo di un calcio travolgente come il più grande degli amori corrisposti”.

foto Megan Rapinoe Getty Images 

Se io dico Roberto Baggio si alzano tutti in piedi. Poi ricordano, si commuovono, sognano ad occhi aperti, si mettono una mano sul cuore e sanno che Baggio è lì e da nessun altra parte. Uno così lo si può solo amare, né troppo e né troppo poco. Lo ami per tutto quello che ha fatto, per aver rappresentato le big del calcio italiano e le squadre di province allo stesso modo, sempre con quel sorriso, con l’eleganza, con le giocate che non ti aspetti, troppo naturali per poterle prevedere, troppo immediate per provare a goderti l’attesa del “vediamo come va”, con Baggio sapevi già come andava.
Il divin codino vinceva anche quando perdeva, la gente correva allo stadio e pendeva dal suo destro prelibato, si stropicciava gli occhi, indossava con orgoglio la maglia “Baggio 10” (o 18 per i palati fini) e ne faceva quasi una seconda pelle, talvolta a prescindere dai colori.
Ma se Roberto Baggio fosse stato “solo” il migliore nel rettangolo di gioco, probabilmente oggi la gente avrebbe ricordi sbiaditi di gol capolavoro e trofei sollevati al cielo, ed invece la timidezza, la semplicità, la lealtà con cui ha affrontato tutto ciò che c’era intorno, ne fa di lui un campionissimo senza eguali e ricordarsi i dettagli, il profumo di una giocata, l’estro che tirava fuori dal cilindro al 5′ o al 95′, è ciò che di più naturale scaturisce in quel tifoso anche romantico che sa bene che “Come Baggio non ne nascono più”.
Al Festival dello Sport di Trento a Roberto Baggio spetta l’inaugurazione, è lui a dare il là al Circus di campioni che passeggiano in piazza Duomo e si sbizzarriscono tra il Teatro Sociale e l’Auditorium Santa Chiara, e Baggio il là lo dà esattamente come solo lui sa fare, con garbo e gli occhi che brillano.
Gli basta parlare di calcio, raccontare la sua vita spesa dietro quel pallone e citare un milione di volte la passione senza mai essere ridondante o banale.

Ho giocato con una passione infinita, se non mi fossi allenato duramente non avrei fatto quello che ho fatto, non ci sono muri invalicabili per la passione,
niente arriva per caso ci vuole la perseveranza e chi non parla di lavoro dice bugie
“.

“Qualunque professione se non c’è impegno siamo vuoti, la grandezza di una persona si misura dalla voglia che ha di sfidarsi”.

“Ovunque andavo giocavo per far felici i miei tifosi, il mio unico scopo è sempre stato quello di far divertire la gente”.

“Non invidio nessuno solo chi gioca a calcio, darei qualunque cosa per giocare ancora”.

“È fondamentale il percorso che ognuno di noi fa, la sconfitta va accettata. Se io l’accettavo? In realtà quando giocavo non avevo mai l’idea di poter perdere”.

“Il calcio mi ha insegnato a non mollare mai”.

“Se non passiamo attraverso la sofferenza, non possiamo creare qualcosa di infinito valore”.

Il punto è, caro Roberto Baggio, che quando tu avevi il pallone nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo, eppure eravamo tutti emozionati.

È il Festival della Grande Bellezza e la grande bellezza non può non far rima con Roberto Baggio.

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foto Alessandro Gennari


Ma a voi cosa vi frega esattamente? Tipo, vi frega la pizza il sabato sera anche quando siete a dieta? Vi fregano le giornate primaverili piuttosto che “Divano, piumone e serie tv?” Vi frega il sorriso di un bambino, un cane che scodinzola o, che ne so, lo shopping sfrenato?

E i tramonti vi fregano? E la neve che riveste tutto di bianco? E le patatine fritte? Dio quanto mi fregano le patatine fritte, ne mangerei a quintali. E poi magari vi frega il venerdì sera, il vostro capo che vi implora di un ultimo favore, i film alle due di notte, l’inno di Mameli prima di una partita dell’Italia, l’ultimo singolo di Ligabue ed il lunedì mattina, quello poi mi frega sempre mannaggia a lui.

Ecco, personalmente potrei dire che tutte queste cose mi fregano un po’, ma che non c’è niente al mondo che mi freghi come il nodo allo stomaco. Mi incastra sempre, nel bene e nel male.
Tipo ieri sera, mentre facevo il borsone per andare al campo al primo allenamento dell’anno, qualcosa come sedici stagioni dopo, quel maledetto nodo allo stomaco era lì, ancora una volta, come a dirmi che giusto o non giusto stavo facendo ciò che sentivo, che non c’era età, stanchezza, voglia, dolore alla gamba, lavoro in arretrato che tenesse.

E il nodo allo stomaco in amore? Ne vogliamo parlare? Tanti dicono “Fa ciò che ti dice il cuore”, altri t’implorano di ascoltare la mente, quelli bravi riescono a persino a mixare le due cose, ma io, che sono io e nessun altro al mondo, mi aggrappo sempre e solo al nodo allo stomaco. Posso mettere da parte l’orgoglio o usarlo come corazza indistruttibile, posso ripetere giorno e notte che non me ne frega nulla, che bisogna guardare avanti, che quello che è stato è stato ma alla fine…sbam. C’è il nodo allo stomaco e tutto cambia. E come ve lo spiego?

È un’emozione che si attorciglia e s’aggrappa, che ti succhia linfa vitale, che ti fa mordere le labbra, brillare gli occhi, dire frasi stupide e talvolta regalare ai più sconosciuti passanti una lunga collezione di espressioni da ebete che se solo i content creator di meme ti vedessero, ci metterebbero dodici secondi esatti per trasformarti in un meme vivente. Ma il peggio è quando provi pure a scioglierlo quel nodo allo stomaco incurante del fatto che tirare i capi della corda in maniera sbagliata, lo renda ancora più indissolubile, e, come se avesse un volto ed un sorriso, è capace di sogghignarti in faccia con aria di sfida e la consapevolezza di averti fregato di nuovo.

Ed è così che mi rendo conto che alla fine sarà pur vero che il cuore batta forte, che le gambe tremino, che le emozioni mi taglino il respiro, ma è quello stra maledetto nodo allo stomaco che scombussola il mio libero arbitrio, lo fa suo, lo shakera con le sensazioni, lo incastra lì e se lo tiene stretto, non me ne restituisce nemmeno un pezzetto, né quando faccio il borsone, né quando m’incanto di fronte ad un tramonto lontano da casa, né quando mi ritrovo a fare i conti con occhi così belli e così sbagliati. E tutto ciò che vivo lo classifico inserendolo nella colonnina “Nodo allo stomaco sì o nodo allo stomaco no”, non conosco altro metro di giudizio.

E quando tiro la riga e faccio i conti so già fino a che punto sono fregata, anzi, talvolta, maledettamente fottuta.

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Esiste per tutti il giorno Zero, è un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte. Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Si chiama giorno zero perché quello che segue lo zero è sempre un inizio e negli inizi non si conosce la sconfitta”.

Qualche mese fa Ambra Angiolini raccontava così il suo stato d’animo dopo la fine della relazione con Massimiliano Allegri. Balzò agli onori della cronaca per la lucidità nell’affrontare quello che indubbiamente era un dolore suo e totalmente inspiegabile. Pose un punto, definitivo, e voltò pagina, magari con una biro scarica tra le mani e le idee troppo confuse, eppure non ebbe paura di farlo. Al di là di colpe e giudizi, la fine di una relazione, la fine di un amore, è una rottura con un pezzo di vita che è stato e che forse “mai sarà più”, almeno non in quel modo. Le cose cambiano e non resta che prenderne atto anche e soprattutto di fronte all’impossibilità di poter fare qualcosa di diverso.

Ora mi chiedevo: e se il 1° settembre fosse il nuovo “giorno zero?” Si sa, agosto va in cantina e porta con sé la salsedine di una vacanza al mare, la frescura delle passeggiate in montagna, un’amicizia condivisa di fronte ad un tramonto, il rossore sulle guance per un nuovo amore sbocciato e magari già finito, la leggerezza delle notti d’estate che ti tocca aspettare altri trecento giorni per ritrovarla,…; agosto ripone le valigie nello scaffale e lascia che a prendersene cura siano buio e polvere, in attesa di riportarle alla luce e dar loro nuova direzione, fra gli scompartimenti di treni veloci, di stive di aerei o striminziti bagagliai di auto colmi più di entusiasmo che di vestiti.

E mentre l’animo sembra aver trovato un po’ di pace e le menti hanno la linfa dei giorni migliori, ecco che all’orizzonte si fanno strada i nuovi progetti, camminano verso di noi pronti a prenderci per mano e a condurci verso l’esplorazione di angoli di un mondo sempre troppo grande e affascinante per chi ha occhi curiosi e cuori impavidi. Che poi anche qui non sempre le cose vanno come da pronostico, anzi per la maggior parte i pronostici vengono sovvertiti, i sogni sbiadiscono ed i progetti vanno a puttane, ma è tentare che fa la differenza, credere che di fronte ad una piscina vuota basti una spinta un po’ più forte su quel trampolino che scricchiola per avere anche solo la sensazione di volare alto, di respirare un’aria nuova, senza lasciarsi domare dalla paura di un atterraggio burrascoso o dall’invidia di un paracadute che fa ombra ad altre schiene.

E allora me lo sono chiesta e richiesta e continuo a sentirlo rimbalzare nella mia mente come la pallina di flipper impazzito che le tenta tutte pur di non cadere: e se questo 1° settembre fosse il giorno zero? In fondo dovrei sapere che forma ha, qualche giorno zero l’ho collezionato anche io, e poi non c’è mai limite ai giorni così nella vita di una persona, non saprai mai quanti te ne capiteranno, ma saprai sempre quanti deciderai di farne capitare tu perché mettere un punto, chiudere una porta, cambiare strada è un catino pieno di lacrime che fa a gara con una nuova opportunità, e le nuove opportunità ciò che sanno fare meglio è sguazzare in mari agitati e rimanere a galla.

Ed è questo il nocciolo: dopo il giorno zero non ci sarà nessun nuovo amore che ti guarderà con occhi diversi, non ci sarà quell’amico che ritorna, non ci sarà il lavoro dei tuoi sogni che bussa alla porta di casa, ci sarà “solo” la volontà di nuotare per spingerti là dove non sei mai stato. E allora “Zitto e nuota” per dirla come uno dei miei cartoni animati preferiti…tu nuota, che non si sa mai cosa ti succede, che poi metti che la vita ti sorprende, devi farti trovare pronto.

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“Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel ciel infinito…”: vale scomodare Modugno per raccontare Gimbo Tamberi?

Vale, vale tutto oggi. Vorrei raccontarvi una cosa per spiegare Gimbo Tamberi dopo l’ennesima impresa di una carriera che è storia.
Agosto 2018: io, la mia follia, la mia fame di raccontare lo sport, ed un caro amico fotografo, saltiamo su un aereo con rotta verso Berlino, ci sono gli Europei di Atletica. Il day 6 di quella spedizione conta la finale di salto in alto maschile. C’è Tamberi in ripresa dopo il brutto infortunio patito alla vigilia di Rio, vediamo che combina. Sarà tornato quello del 2.39 record italiano?

La gara è un misto di emozioni, Gimbo lotta, eccome, la medaglia è alla portata, c’è la “cazzimma”, ma manca la brillantezza, 2.33 diventa l’Everest e a vincere è il padrone di casa, Przybylko, con 2.35. Io li sento i commenti attorno, “Non è più quello di prima”, “Non tornerà ad essere il Gimbo Tamberi che ci ha fatto sperare per un futuro top dell’atletica”, “Mi sa che ormai ce lo siamo giocati”, “Dovrebbe fare qualche sceneggiata in meno e lavorare di più”, eppure io avevo visto altro. Avevo visto un talento sotto le macerie, avevo visto il carattere di chi non conosce la parola arrendersi, la disperazione per un mancato podio, l’amore per uno sport che è sempre stato di più di una passione e di un’ossessione, saltare non era questione di vita o di morte, era di più, molto di più.

E poi ho visto gli occhi, gli angoli della bocca piegati all’in giù, le mani che gesticolano, ed un “fanculo” mega galattico che lampeggiava sulla fronte. In mixed zone c’era un Tamberi che mi raccontava le sensazioni, con i conti in sospeso in una mano e la voglia di spaccare il mondo nell’altra. “Ci sei Gimbo, la strada è “solo” lunga, ma è quella giusta, devi spostare ad una ad una le macerie che ti hanno investito, poi troverai la luce”. Mi ringraziasti, un sorriso amaro, forse un po’ per farmi contenta, e andasti via.

Quello sguardo sbarazzino e velato di malinconia mi restò dentro, ed oggi, ogni volta che ti vedo prenderti a schiaffi all’inizio di una rincorsa pennellata come in un quadro di Giotto, penso all’Everest che hai scalato a mani nude e alla luce che ti avvolge là, in cima, al cospetto di un mondo che ha capito, ha applaudito e si è inchinato.

L’Italia intera ti ringrazia perché l’atletica italiana ha trovato in te, “un capitano, c’è solo un capitano”, ma questo non basta, bisogna andare oltre, oltre le vittorie, oltre le medaglie d’oro, oltre quell’Inno che ogni volta è lacrime e pelle d’oca, perchè è solo oltre che scopri l’uomo, l’esempio, la gratitudine.

Ti siamo grati Gimbo Tamberi, ti sono grata: io l’atletica l’ho sempre amata profondamente, ma tu mi hai preso per mano e mi hai portato con te ad esplorare la luna, le stelle, il sole, hai spalancato una porta su un angolo di cielo di cui non conoscevo forma, né tanto meno esistenza. È l’angolo dei sogni che diventano realtà, delle leggende, di un libro bianco ed una penna, ma tu non ti sei limitato a scrivere la storia è la storia che ha scritto di te perché oggi la storia sei tu.

Resterai nell’Olimpo delle leggende italiane per sempre, ma sempre sempre sempre, con indosso un abito che nessuno è riuscito ad indossare in maniera così impeccabile, è l’abito del “Nothing is Impossible”, e dopo questa ennesima notte di magia ha definitivamente un altro senso…l’impossibile che diventa possibile sei tu.

Con il cuore in mano, ti dico grazie Gimbo Tamberi, infinitamente grazie.

foto Fidal

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