Ho un gruppo su whatsapp che si chiama 5ªB. È la mia 5ªB di tanti anni fa. Quanti? Venti, vent’anni fa. Sbam.
Questa mattina Andrea ha scritto: “Ragazzi, 20 anni fa preparavamo la maturità, ve lo ricordate?”, “Che Ansia” la mia prima risposta.

Ero una ragazzina, mannaggia, piena di sogni e belle speranze, avevo tante idee in testa e mai una giusta, avevo sempre qualche parola di troppo, uno scherzo da combinare a qualcuno, un’allergia al diritto (anche se poi i miei diritti me li sono sempre presi tutti), ed un gelato tra le mani, mentre andavo di corsa, sempre di corsa e chissà dove. Avevo tanti dubbi ed altrettante domande senza risposta, ma una cosa la sapevo, e l’ho sempre saputa: avrei fatto la giornalista. A qualunque costo. Per me quella maturità era solo un rito di passaggio da togliermi dalle scatole quanto prima, non me la sono goduta affatto, io pensavo all’università, al test di Scienze della Comunicazione, a tutto quello che sarebbe stato poi, a voler diventare grande. L’ho sempre avuto questo difetto, guardare oltre senza godermi a fondo il momento…devo dire che vent’anni dopo qualcosa l’ho imparata. Ma sono fatta così: mi basta una finestrella per andare alla ricerca di nuovi orizzonti, per vedere le mie ambizioni disegnare in cielo voli pindarici, per colorare con toni accesi anche le figure più astratte della mia anima.

Vent’anni fa, dicevo, era tutta un’altra storia ma anche in questo doppio decennio, di storia, ne ho scritta un’altra bellissima, ed è la mia. Lo so che le storie si dovrebbero raccontare dall’inizio ma io voglio partire dalla fine, da oggi. Prometto commenti non troppo smielati ed un milione e mezzo di lacrime circa, almeno finché sono riuscita a contarle.
“Accredito?”, “Mariella Lamonica”, prego signorina si accomodi. Di fronte a me il Quirinale, alle mie spalle, senza quasi saperlo, mi stavo lasciando 20 anni di sacrifici e passione. I passi in maniera inversamente proporzionale ai battiti del mio cuore, andavano lenti, pronti ad assecondare la mia voglia di gustarmi tutto. A pieni polmoni e testa alta ho attraversato i vialetti, raccolto i saluti composti delle guardie, annusato i particolari, mi sono accomodata nei posti riservati alla stampa e ho provato a farmi largo in un vortice di emozioni che sono riuscita a tenere a bada solo per i primi 25 secondi netti, poi mi hanno travolto ed ho lasciato loro il pieno comando dei miei sorrisi, dei miei sguardi e della mia pelle.

A pochi passi dalla squadra Olimpica prossima a partire per Parigi, a pochi passi dalle parole del Presidente Malagò e del Ministro Abodi, vicina, vicinissima, al discorso encomiabile del Presidente Pancalli, rivestita ed investita dalle parole di Arianna Errigo, Gianmarco Tamberi, Luca Mazzone ed Ambra Sabatini, dentro, totalmente dentro, le parole del Presidente Sergio Mattarella che ancora una volta ha dimostrato d’essere innanzitutto un uomo d’altri tempi dall’inestimabile spessore umano, e che poi, ha quasi scherzato con la sua carica per mettersi al pari di un “tifoso elegante”, ma appassionato, mai sazio e mai domo di fronte alle storie azzurre.
Mi auguro che possiate tornare con un bus pieno zeppo di atleti medagliati ma se così non dovesse essere non toglierà nulla ai vostri percorsi, sono certo che darete il meglio di voi stessi e ci renderete orgogliosi di voi“.
Ho commesso un’infrazione alla prassi di protocollo del Quirinale tornando per la seconda serata consecutiva allo Stadio Olimpico per assistere agli Europei di atletica leggera. E ora posso dire che ne è valsa la pena“.

Ha ragione Presidente, ne è valsa la pena. Ne è valsa la pena di scrivere una storia così, come la mia, arzigogolata, stancante, incompresa ai più, fatta di sacrifici e passione, parole chiave in un percorso che ha preso la direzione dei sogni e non è più tornato indietro. La giornata di oggi me la porterò dentro e addosso per sempre. Ma la cosa più bella è che tutto ciò non è nemmeno la fine di questa storia che dura da vent’anni, ogni traguardo sarà sempre e solo l’inizio.

Ho creduto ad un sogno, ho dato retta a quella bambina sbarazzina con gli occhiali ed i capelli ricci che ho dentro, e ho fatto bene. I sogni a volte, diventano realtà.


Day 5 – Devo essere proprio noiosa quando racconto quello che vivo e come lo vivo, ma non posso nemmeno discostarmi troppo dallo sguardo che i miei occhi hanno sulla realtà, da ciò che assorbono portandolo in un’orbita parallela, quella dimensione intoccabile a chiunque ma non dal vento. Il vento è l’unico compagno di viaggio in questo pianeta oscuro, accarezza i sogni e riesce sempre a soffiare per potarli un po’più in là, e più in là è un posto bellissimo.

La prima immagine che rimembro di questa lunga giornata è una scolaresca di piccolissimi alunni vestiti di tutto punto con magliettina bianca, si mettono in fila per due e varcano lo Stadio Olimpico. Poi eccoli lì, in un pezzettino di curva che trasformano in nuvola bianca al contagioso grido di “Italia, Italia”.

La seconda immagine sono gli occhi di Sibilio: piangere alle 21.07 non dovrebbe essere permesso dalla legge. Ma se ti vesti d’argento dopo un 400 hs in cui abbatti il record italiano di Fabrizio Mori che durava da 23 anni, se oltre quel traguardo sei lacrime, storia, forze stremate, l’abbraccio con il capitano, il primo dei normali dietro l’alieno Warholm, è perché il velo sugli occhi è polvere magica che rende perfetta una serata indimenticabile.

La terza immagine sono le braccia al cielo di Nadia Battocletti e la standing ovation. Dopo 10 mila metri nemmeno l’Olimpico ce la fa a stare al proprio posto, si alza in piedi, si spella le mani, strabuzza gli occhi, Battocletti è d’oro grazie alla capacità incredibile di rendere semplici le cose difficili, è una semplicità che miete nello sguardo, nella calma con cui si presenta ai microfoni post fatiche europee, nella compostezza con cui fa il giro d’onore, nell’abbraccio con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

E allora eccola la quarta immagine, il Presidente. Ottantatré anni e restare svegli fino alle 23 già non è da tutti, diciamolo. Arriva quasi puntuale e si gode la serata, si prende la scena giusto il tempo dell’Inno di Mameli, poi sa che Roma, questa sera, non ha occhi che per i suoi eroi azzurri e si fa da parte con galanteria, ma non dimentica di rispondere con un inchino ad un altro inchino, non dimentica di lodare chi sta portando in alto il tricolore azzurro.

La quinta immagine è la composizione di un quadro astratto d’inestimabile valore: Gimbo Tamberi, olio su tela. 
È sempre una storia nella storia. Entra in pista e parte lo show, aizza il pubblico, strizza l’occhio alla telecamera, va alla ricerca di Mattarella e gli manda un saluto commosso, indossa la sua divisa preferita, abbraccia Lando e Sottile, ed inizia a volare. A 229 centimetri da terra il volo s’interrompe per due volte, le spalle sono già appoggiate al muro, e l’unica via di fuga è non cadere nell’affanno e aggrapparsi alla pazienza, una pazienza fatta di consapevolezze. Spalle al muro Gimbo non molla mai. Mai. Ma proprio mai. Spalle al muro è solo un modo per prendere la rincorsa e volare ancora più su, sospinto dal fiato sospeso di una curva che non ha occhi che per lui. Alla voce morire e risorgere capeggia un solo nome e no, non è quello che religiosamente parlando tutti pensano. È quello di un marchigiano che nelle difficoltà si esalta, vezzo tipico dell’italiano vero. E allora Gimbo Tamberi vola, e vola a 231, vola a 234, strabilia a 237, piazzando la miglior misura della stagione a livello mondiale. Non ci si crede. S’inventa lo show di un finto infortunio e di una molla in una scarpa, 30 secondi di panico puro in cui l’Italia trema, mentre quel matto da legare gongola. Si è di nuovo ripreso l’Europa, in attesa del mondo, in attesa dell’Olimpo, e lo ha fatto nell’unico modo che conosce, tra talento e follia.

Date un’occhiata alla luna stanotte, le donerà persino la mezza barba…da quelle parti, e solo da quelle parti, potrete trovare Gimbo Tamberi.

Buonanotte Roma

Foto European Athletics

QUI IL RIASSUNTO DEL DAY 4

Cari Europei di atletica, da dove partiamo stasera? Partiamo dalla capatina al negozio: che fai non la compri la maglietta di Roma 2024? La compri eccome, e già la immagini incorniciata e piena di firme, da buona teenager sempre viva dentro. Fuori dallo stadio c’è una sana aria di festa, tra un panino ed una birra e la caccia al gadget di turno, con il sole che fa capolino dando incoraggianti segnali d’estate. 
Passo dopo passo sei di nuovo all’ingresso e pensi, “è ancora più bello di ieri”, non sembra possibile, ma è così per davvero.
E da lì via con quelle stramaledette emozioni, le provi una volta e ne vuoi sempre di più, non ti accontenti mai. Creano dipendenza.

Ci provano nei 200 metri Siragusa e Kaddari, niente finale per loro, ci provano Bruni e Molinarolo nell’asta, ma quell’asticella là in alto ad un certo punto diventa barriera insormontabile, il materassone culla e consola, come l’abbraccio del pubblico; ci prova, ci crede, fa sperare tantissimo Luca Sito. Il giro di pista è un giro d’onore che a 21 anni, pulito e sfacciato allo stesso tempo, vivi con orgoglio e coraggio, ma il coraggio a volte basta per sparigliare le carte e solleticare i big, poi ti frega sul traguardo quando arriva per primo insieme al cuore ma lascia indietro le gambe. È 5° posto ed uno stadio intero che canta “Luca, Luca”. Sito è uomo adulto, da qui non si torna più indietro. 
Zoghlami nei 3000 siepi è una bomba ad orologeria, ma esplode troppo presto, l’all-in della serie “Scappo e vediamo se mi prendono” non ha funzionato, tutta esperienza da mettere in saccoccia. 

Tocca di nuovo ai decathleti. Lasciatemi fare una domanda: ma il fegato dei decathleti quanto è grosso? Più o meno di quello dei peggiori frequentatori dei bar del Bronx? Chiedo eh. Perché loro fanno tutto. Ma tutto. Servono i pop corn al bar, passano dagli spogliatoi per una pulitina, aizzano il pubblico, e nel mezzo ci piazzano pure 10 gare in pochi giorni. Immensa stima per Dario Dester e Lorenzo Naidon, portacolori azzurri dal fegato enorme ma anche gambe forti.

“La Notte Vola” cantava Lorella Cuccarini, il volume lo alza Sara “gli occhi della tigre” Fantini: orooooooooooooooooooooooooo! Quel martello che vola fino a 74.18 e lei che voleva prendersi Roma si è presa l’Europa intera. Poi ride e piange, piange e ride ed abbraccia la primatista al mondo, la polacca Wlodarczyk che questa sera si è dovuta inchinare di fronte all’azzurro vivo accecante di quegli occhi fidentini, fari nella notte romana.

Ma non è finita, non è ancora finita, anzi non finisce mai soprattutto quando c’è l’Italia di mezzo. Siamo all’ultima portata di una cena filata via liscia, con un dolce da chef stellato, ma se la torta è servita manca la ciliegina e a guardarla bene persino la targhetta di cioccolato. I 200 metri hanno tutti gli ingredienti per essere dolcissimi, ma c’è un cameriere tedesco che inciampa sul più bello: Hartmann, uno dei favoriti, viene tradito dalla tensione e commette una falsa partenza che gli costa il cartellino rosso, gli altri commensali al tavolo iniziano forse a leccarsi i baffi con largo anticipo, ma la torta, ahinoi, è amara: Filippo Tortu perde l’occasione di mettersi al collo un oro europeo che dopo la straripante semifinale di ieri godeva di tutti i favori dei pronostici, la medaglia è d’argento ma pesa come un macigno sul cuore e su un sogno rimasto a metà, svanito, addirittura, per Fausto Desalu:Quel bronzo poteva essere mio, ho sporcato la corsa sul più bello e perso una grande occasione, ma sono sereno perché so come sto lavorando, perché sono lo stesso atleta di ieri che ha fatto la gara che ha fatto, questo è lo sport, si accetta, non si trovano scuse e si va avanti”.

E allora guardiamo avanti perché il day 5 degli Europei di Atletica vorrà rimpinzare un medagliere che da stasera tocca quota 17 (8 ori), il day 5 crea aspettative fameliche e tra poche ore alzerà il sipario su una lunga giornata pronta ad assumere le sembianze di una sbornia collettiva…inizia a shakerare Gimbo!

Buonanotte Roma

Foto European Athletics

QUI IL RIASSUNTO DEL DAY 3 – EUROPEI DI ATLETICA

Chiudi gli occhi, respira, gira l’angolo, passa a ritirare l’accredito ed affacciati sul vialetto…lo vedi là in fondo e senti già un certo fascino che ti avvolge, diciamoci la verità l’Olimpico è l’Olimpico, e se ci metto che il contorno è quello di una delle città più belle del mondo, sai già che sarà un’altra bella storia. Basterebbe questo per raccontare il mio primo giorno agli Europei di atletica, perché è più forte di me, perché quando respiro un’aria sana di sport e passione, riesco a mettermi alle spalle persino i peggiori malumori delle settimane premestruo.

L’Olimpico prima ti spalanca le porte e poi ti abbraccia, apre lo scrigno e svela uno dei miei primi veri amori, l’atletica. La bellezza del gesto tecnico sportivo per eccellenza io la vedo sempre racchiusa lì, in un’asticella che vibra, nella sabbia dorata che ti sfiora la pelle, nel religioso silenzio che accompagna l’attesa fino allo sparo, quando poi esplode tutto e parte la danza. Questa è l’atletica, gli sforzi di una vita in 10’’, in un centimetro più in su o più in là, nei denti stretti di un finale in cui le gambe non reggono più ma la fatica diventa tua alleata.

Certo poi mettici un Tortu che spara a bomba, la curva pennellata di Desalu, ed i bronzi di Tecuceanu e Dosso, uno acciuffato in rimonta l’altro al fotofinish, mettici il medagliere che tocca quota 15 ed un collega che ti strappa due risate, mettici la pioggia, i campanacci degli svizzeri ed il “tutti pazzi per Ciara Mageean”, mettici, infine, la mixed zone, ed i commenti a caldo, più le dita stanche su di una tastiera che digitano emozioni e le lasciano lì, imperfette come non mai ma leggere come sempre.

Buonanotte Roma 2024, ci vediamo domani. 

Foto European Athletics

È il minuto 83 di Milan – Fiorentina, Francesco Camarda si sfila la casacca, Pioli ha scelto lui. 15 anni, 8 mesi e 15 giorni e questa sera se la ricorderà per sempre, perchè è la sera dei sogni, è la sera dell’esordio in serie A, è la sera in cui ti guardi intorno e non ci credi.

Francesco Camarda non lo sa che da stasera potrebbe cambiare tutto o potrebbe non cambiare niente, ma è certo che il destino, la sua caparbietà, il suo talento, il suo percorso, la sua grinta, la sua passione, la sua fortuna, lo hanno vestito di un record che rimarrà nel tempo.

In google è già uno dei nomi più ricercati, si è sentito addosso il peso di 80 mila occhi, domani i giornali metteranno il suo viso fanciullesco in prima pagina, e pigieranno il piede sull’acceleratore dei paragoni, dei commenti, del “Può diventare più forte di…”.

Io non ho cercato nulla, non faccio la tuttologa e non voglio sapere altro. Da amante del calcio vorrei che la sua storia me la raccontasse lui. Con le manciate di minuti che il Milan gli concederà da qui a fine stagione, con le giocate di un ragazzino sbarazzino, con i gol, perché no, con l’entusiasmo di un 15enne coraggioso con un sogno grande quanto San Siro che somiglia tanto al tema di 5ª elementare, quando la maestra ti chiedeva: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Il calciatore. Francesco Camarda vuole solo fare il calciatore. Con la maglia del Milan, quella dell’Italia, con una qualsiasi altra maglia, a San Siro come al Bernabeu, al Tardini come nel campetto sotto casa. Non c’è alcuna differenza.

Lasciatelo sognare, lasciatelo sognare in pace.

Foto Twitter

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I capelli color rosa, olilla, o azzurri, hanno solo dato colore ad un talento che di per sé le sfumature le conosceva già tutte, perché quel talento cucito addosso a Megan Rapinoe ha immerso il volto in un arcobaleno.

Il giallo delle giornate migliori, il rosso delle sfide trionfanti, il blu scuro quando sarebbe bastato tanto così per acciuffare quello che mancava all’appello, il nero per un tendine che ha fatto male troppo presto, in quell’ultima danza che sarebbe dovuta essere un lento così simile al ballo della 5ª liceo piuttosto che al suono di un pianoforte scordato.

Ma sfogliare lo spartito dall’inizio significa ripercorrere una carriera senza eguali che fa di Megan Rapinoe la direttrice d’orchestra perfetta ma anche una delle più grandi calciatrici di tutti i tempi. La bacheca brilla di un oro olimpico conquistato l’11 agosto 2012, a Londra, con il Giappone, rivale di sempre, e di due Mondiali vinti da protagonista assoluta, nel 2015 in Canada quando divise la scena con Carli Lloyd e Alex Morgan, battendo in finale, guarda un po’, il Giappone per 5-2, e nel 2019 in Francia, quando i gol furono tanti di cui uno, decisivo, nell’ultimo atto, dove con la sua nazionale a stelle e strisce ebbe la meglio sui Paesi Bassi per 2-0.

Ma sfogliando ancora, i colori balzano agli occhi e la musica si fa più forte: è il 2 dicembre 2019, per la seconda volta nella sua storia il Pallone d’Oro finisce anche nelle mani di una calciatrice, e quella calciatrice è proprio lei, Megan Rapinoe. A 34 anni è la più forte di tutte.

Le note stonate di una melodia dolcissima sono il non essere mai riuscita a vincere una finale di National Women’s Soccer League, stregata fino all’ultimo visto che anche lo scorso sabato, in quello che è stato l’ultimo atto dell’atleta 38enne, a vincere è stato il NY Gotham FC di New York per 2-1 proprio a scapito dell’OL Reign di Seattle. Ma l’ingiustizia totalizzante l’ha consumata il terzo minuto quando quel tendine d’achille faceva troppo male e l’unica via di fuga dal dolore era la strada che conduceva alla panchina, troppo breve per rivivere tutto quello che è stato ma lunga abbastanza per godersi il tributo di una standing ovation da pelle d’oca, condita dall’abbraccio dell’altra capitana, sua compagna di nazionale, Ali Krieger.

E così, mentre una mano asciugava le lacrime e l’altra ringraziava un pubblico che è sempre stato dalla sua parte, negli occhi di chi si è goduto ogni scena di una mirabolante carriera fatta anche di giocate di gran classe al di fuori del terreno di gioco, come la campagna di sensibilizzazione per una parità salariale tra uomini e donne, nei pugni stretti perchè “non doveva finire così”, c’è ancora spazio per i ricordi, per quell’esultanza a braccia aperte dopo ogni gol che forse, fino ad oggi, ha sempre significato “Eccomi qua, ci sono anche io“, ma che da domani andrà verso un messaggio più profondo, come a dire Lo spettacolo è finito, grazie di tutto mio caro football” nell’eco di un’unica risposta “Grazie a te, Megan Rapinoe, campionessa senza tempo di un calcio travolgente come il più grande degli amori corrisposti”.

foto Megan Rapinoe Getty Images 

Se io dico Roberto Baggio si alzano tutti in piedi. Poi ricordano, si commuovono, sognano ad occhi aperti, si mettono una mano sul cuore e sanno che Baggio è lì e da nessun altra parte. Uno così lo si può solo amare, né troppo e né troppo poco. Lo ami per tutto quello che ha fatto, per aver rappresentato le big del calcio italiano e le squadre di province allo stesso modo, sempre con quel sorriso, con l’eleganza, con le giocate che non ti aspetti, troppo naturali per poterle prevedere, troppo immediate per provare a goderti l’attesa del “vediamo come va”, con Baggio sapevi già come andava.
Il divin codino vinceva anche quando perdeva, la gente correva allo stadio e pendeva dal suo destro prelibato, si stropicciava gli occhi, indossava con orgoglio la maglia “Baggio 10” (o 18 per i palati fini) e ne faceva quasi una seconda pelle, talvolta a prescindere dai colori.
Ma se Roberto Baggio fosse stato “solo” il migliore nel rettangolo di gioco, probabilmente oggi la gente avrebbe ricordi sbiaditi di gol capolavoro e trofei sollevati al cielo, ed invece la timidezza, la semplicità, la lealtà con cui ha affrontato tutto ciò che c’era intorno, ne fa di lui un campionissimo senza eguali e ricordarsi i dettagli, il profumo di una giocata, l’estro che tirava fuori dal cilindro al 5′ o al 95′, è ciò che di più naturale scaturisce in quel tifoso anche romantico che sa bene che “Come Baggio non ne nascono più”.
Al Festival dello Sport di Trento a Roberto Baggio spetta l’inaugurazione, è lui a dare il là al Circus di campioni che passeggiano in piazza Duomo e si sbizzarriscono tra il Teatro Sociale e l’Auditorium Santa Chiara, e Baggio il là lo dà esattamente come solo lui sa fare, con garbo e gli occhi che brillano.
Gli basta parlare di calcio, raccontare la sua vita spesa dietro quel pallone e citare un milione di volte la passione senza mai essere ridondante o banale.

Ho giocato con una passione infinita, se non mi fossi allenato duramente non avrei fatto quello che ho fatto, non ci sono muri invalicabili per la passione,
niente arriva per caso ci vuole la perseveranza e chi non parla di lavoro dice bugie
“.

“Qualunque professione se non c’è impegno siamo vuoti, la grandezza di una persona si misura dalla voglia che ha di sfidarsi”.

“Ovunque andavo giocavo per far felici i miei tifosi, il mio unico scopo è sempre stato quello di far divertire la gente”.

“Non invidio nessuno solo chi gioca a calcio, darei qualunque cosa per giocare ancora”.

“È fondamentale il percorso che ognuno di noi fa, la sconfitta va accettata. Se io l’accettavo? In realtà quando giocavo non avevo mai l’idea di poter perdere”.

“Il calcio mi ha insegnato a non mollare mai”.

“Se non passiamo attraverso la sofferenza, non possiamo creare qualcosa di infinito valore”.

Il punto è, caro Roberto Baggio, che quando tu avevi il pallone nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo, eppure eravamo tutti emozionati.

È il Festival della Grande Bellezza e la grande bellezza non può non far rima con Roberto Baggio.

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foto Alessandro Gennari


“Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel ciel infinito…”: vale scomodare Modugno per raccontare Gimbo Tamberi?

Vale, vale tutto oggi. Vorrei raccontarvi una cosa per spiegare Gimbo Tamberi dopo l’ennesima impresa di una carriera che è storia.
Agosto 2018: io, la mia follia, la mia fame di raccontare lo sport, ed un caro amico fotografo, saltiamo su un aereo con rotta verso Berlino, ci sono gli Europei di Atletica. Il day 6 di quella spedizione conta la finale di salto in alto maschile. C’è Tamberi in ripresa dopo il brutto infortunio patito alla vigilia di Rio, vediamo che combina. Sarà tornato quello del 2.39 record italiano?

La gara è un misto di emozioni, Gimbo lotta, eccome, la medaglia è alla portata, c’è la “cazzimma”, ma manca la brillantezza, 2.33 diventa l’Everest e a vincere è il padrone di casa, Przybylko, con 2.35. Io li sento i commenti attorno, “Non è più quello di prima”, “Non tornerà ad essere il Gimbo Tamberi che ci ha fatto sperare per un futuro top dell’atletica”, “Mi sa che ormai ce lo siamo giocati”, “Dovrebbe fare qualche sceneggiata in meno e lavorare di più”, eppure io avevo visto altro. Avevo visto un talento sotto le macerie, avevo visto il carattere di chi non conosce la parola arrendersi, la disperazione per un mancato podio, l’amore per uno sport che è sempre stato di più di una passione e di un’ossessione, saltare non era questione di vita o di morte, era di più, molto di più.

E poi ho visto gli occhi, gli angoli della bocca piegati all’in giù, le mani che gesticolano, ed un “fanculo” mega galattico che lampeggiava sulla fronte. In mixed zone c’era un Tamberi che mi raccontava le sensazioni, con i conti in sospeso in una mano e la voglia di spaccare il mondo nell’altra. “Ci sei Gimbo, la strada è “solo” lunga, ma è quella giusta, devi spostare ad una ad una le macerie che ti hanno investito, poi troverai la luce”. Mi ringraziasti, un sorriso amaro, forse un po’ per farmi contenta, e andasti via.

Quello sguardo sbarazzino e velato di malinconia mi restò dentro, ed oggi, ogni volta che ti vedo prenderti a schiaffi all’inizio di una rincorsa pennellata come in un quadro di Giotto, penso all’Everest che hai scalato a mani nude e alla luce che ti avvolge là, in cima, al cospetto di un mondo che ha capito, ha applaudito e si è inchinato.

L’Italia intera ti ringrazia perché l’atletica italiana ha trovato in te, “un capitano, c’è solo un capitano”, ma questo non basta, bisogna andare oltre, oltre le vittorie, oltre le medaglie d’oro, oltre quell’Inno che ogni volta è lacrime e pelle d’oca, perchè è solo oltre che scopri l’uomo, l’esempio, la gratitudine.

Ti siamo grati Gimbo Tamberi, ti sono grata: io l’atletica l’ho sempre amata profondamente, ma tu mi hai preso per mano e mi hai portato con te ad esplorare la luna, le stelle, il sole, hai spalancato una porta su un angolo di cielo di cui non conoscevo forma, né tanto meno esistenza. È l’angolo dei sogni che diventano realtà, delle leggende, di un libro bianco ed una penna, ma tu non ti sei limitato a scrivere la storia è la storia che ha scritto di te perché oggi la storia sei tu.

Resterai nell’Olimpo delle leggende italiane per sempre, ma sempre sempre sempre, con indosso un abito che nessuno è riuscito ad indossare in maniera così impeccabile, è l’abito del “Nothing is Impossible”, e dopo questa ennesima notte di magia ha definitivamente un altro senso…l’impossibile che diventa possibile sei tu.

Con il cuore in mano, ti dico grazie Gimbo Tamberi, infinitamente grazie.

foto Fidal

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È di nuovo serie A, suona la campanella e si torna sui divani, telecomando in mano e la testa che abbandona ogni pensiero per quei novanta minuti di magia.
È stata un’estate strana questa per il calcio italiano, dove ci si è affezionati alle under della Nazionale azzurra riuscendo a trionfare “solo” con i 19enni del ct Bollini, dove si è pianto alle immagini di Girelli & co con le mani in faccia, fuori troppo in fretta da un Mondiale che sapeva tanto di occasione per spalancare una finestra nel mondo, dove si è seguita la querelle Mancini – Italia – Gravina, come la più disarmante puntata di Beautiful in cui tutti stanno con tutti e con nessuno.

E magari fosse tutto qui, ci ha pensato il “calcio d’Arabia” a calare un paio di assi ricoperti d’oro, stravolgendo le aspettative di chi sognava un Milinkovic Savic alla Juventus o un Demiral da prendere a 3 crediti al Fantacalcio. Le nauseanti trattative a suon di schiaffi alla povertà, hanno ammaliato una fetta importante di giocatori e procuratori che probabilmente non tornerà più indietro, e che certamente se dovesse farlo non sarà mai più la stessa cosa, perché “Chi parte per un viaggio non torna mai come prima” per dirla un po’ alla “proverbio cinese” e un po’ alla Temptation Island. E questo viaggio d’oriente ha mischiato le carte, ci ha lasciato un po’ attoniti, smarriti, increduli, ma soprattutto preoccupati: sta davvero finendo tutto?

Ci aggrappiamo agli Szczesny e Zielinsky per credere che non sia così, tra i pochi che di fronte alle miniere d’oro hanno girato la faccia dall’altra parte, ci guardiamo intorno, sfogliamo qualche quotidiano sportivo ma soprattutto i social, e ci rendiamo conto che in realtà siamo già immersi in una nuova stagione. Anche se Dazn costa troppo e ha cifre che ci fanno incazzare, anche se il campionato spezzatino ci terrà incollati alla tv pure il lunedì sera, anche se, mannaggia alla miseria, “non abbiamo comprato nessuno e sarà un’altra stagione di sofferenza”.

Quindi? Che si fa? Ma si, crediamoci ancora una volta. Rinunciamo all’aperitivo del giovedì, vediamo se alle bancarelle sul lungomare c’è già la maglietta di Retegui del Genoa, sbirciamo a che giornata c’è Juve – Milan che inizio a segnarmelo, non si sa mai, magari una puntatina allo stadio.

In fondo tra mille chiacchiere abbiamo una certezza: qualunque cosa succeda non riusciamo a farne a meno. L’app l’abbiamo già aggiornata qualche sera fa una notte in cui si faticava a dormire, con uno “Sbagliato” in una mano ed il nostro smartphone nell’altra, la prima di serie A, poi cade il 19 agosto e siamo ancora in vacanza, ma il baretto della piazza lo sa che un tavolino sotto lo schermo è già tutto per noi. E allora, senza crogiolarci troppo in questa irrequietezza ed in questa incazzatura, nera come l’abbronzatura che ancora regala alle nostre espressioni sul volto un senso di saudage, e tipica di chi ci sta capendo ben poco in questo fantomatico marasma, noi siamo ancora qua…eh già. Della serie: vediamo che succede, ma io non voglio perdermelo, che non si sa mai.

Chiudiamo gli occhi, novanta minuti, ancora novanta minuti, i nostri novanta minuti, quelli che da oggi scandiscono le settimane, quelli che ci faranno gioire, piangere, arrabbiare e godere…non c’è niente che ci renda più tenacemente vivi di quel pallone, di quel boato, di quel numero dieci sulle spalle. In fondo è solo tutto diverso nel bel mezzo di una passione che non è mai cambiata di una virgola.

Campionato, mi sei mancato: bentornata serie A.

Vorrei dire tante cose in questo momento ma forse è meglio sbollire la rabbia per un Mondiale Femminile che sarebbe dovuto e potuto essere tutt’altro.

L’Italia è fuori dai giochi e lo fa dopo una partita dominata dalla paura negli occhi, ed è questa la cosa che fa più male. Perchè c’è sempre modo e modo giusto? Perchè il testa bassa o testa alta vale tutto, giusto? Ecco, e allora è racchiuso lì il senso di ogni discorso, anzi, vado oltre, il senso dello sport.

Le tante scelte sbagliate e che forse solo chi segue il calcio femminile può capire, portano al suicidio tecnico e tattico, ma questo non può andare ad inficiare sulla mancanza di certezze e di consapevolezze, su un cuore ed un’anima che erano pronti a dare tutto e che invece sono stati forzatamente rinchiusi in gabbia senza trovare la chiave per far provare loro l’ebrezza della libertà.

E davvero, io mi chiedo, e questo vale a qualsiasi livello, come puoi pensare di affrontare una partita mondiale con il cuore in affanno e lo sguardo che traballa? Come puoi credere di mettere in fila, passo dopo passo, un cammino in cui raccogliere fiori e luce senza il sorriso sul volto?

Come puoi pensare di giocarti tutto senza coraggio? Il coraggio di rischiare una giocata, il coraggio di guardare negli occhi un’avversaria 15 centimetri più alta di te, il coraggio di fare scelte dolorose ma almeno sensatamente giuste, il coraggio di credere nell’esperienza, nel valore, nella volontà di ogni singola pedina di un domino che ora, ahinoi, è crollato rovinosamente a terra, mischiando ogni pezzo. E forse, alla luce di tutte queste constatazioni, ancor di più il coraggio di prendersi delle responsabilità…e questo è il più imperdonabile degli errori.

Se questa sera, sulla pagina IG di Donne sui Tacchetti, si parlerà di scelte, di tattica, di numeri, qui, l’ho già detto, lascio fluire le emozioni, e sono troppo arrabbiata, delusa, rammaricata, per tutto quello che poteva essere, e non è stato.

È il Mondiale femminile dei rimpianti? Sì, per l’Italia, è il mondiale femminile de rimpianti.

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