È il minuto 83 di Milan – Fiorentina, Francesco Camarda si sfila la casacca, Pioli ha scelto lui. 15 anni, 8 mesi e 15 giorni e questa sera se la ricorderà per sempre, perchè è la sera dei sogni, è la sera dell’esordio in serie A, è la sera in cui ti guardi intorno e non ci credi.

Francesco Camarda non lo sa che da stasera potrebbe cambiare tutto o potrebbe non cambiare niente, ma è certo che il destino, la sua caparbietà, il suo talento, il suo percorso, la sua grinta, la sua passione, la sua fortuna, lo hanno vestito di un record che rimarrà nel tempo.

In google è già uno dei nomi più ricercati, si è sentito addosso il peso di 80 mila occhi, domani i giornali metteranno il suo viso fanciullesco in prima pagina, e pigieranno il piede sull’acceleratore dei paragoni, dei commenti, del “Può diventare più forte di…”.

Io non ho cercato nulla, non faccio la tuttologa e non voglio sapere altro. Da amante del calcio vorrei che la sua storia me la raccontasse lui. Con le manciate di minuti che il Milan gli concederà da qui a fine stagione, con le giocate di un ragazzino sbarazzino, con i gol, perché no, con l’entusiasmo di un 15enne coraggioso con un sogno grande quanto San Siro che somiglia tanto al tema di 5ª elementare, quando la maestra ti chiedeva: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Il calciatore. Francesco Camarda vuole solo fare il calciatore. Con la maglia del Milan, quella dell’Italia, con una qualsiasi altra maglia, a San Siro come al Bernabeu, al Tardini come nel campetto sotto casa. Non c’è alcuna differenza.

Lasciatelo sognare, lasciatelo sognare in pace.

Foto Twitter

LEGGI ANCHE —> MEGAN RAPINOE, THE LAST DANCE IS…INGIUSTO

I capelli color rosa, olilla, o azzurri, hanno solo dato colore ad un talento che di per sé le sfumature le conosceva già tutte, perché quel talento cucito addosso a Megan Rapinoe ha immerso il volto in un arcobaleno.

Il giallo delle giornate migliori, il rosso delle sfide trionfanti, il blu scuro quando sarebbe bastato tanto così per acciuffare quello che mancava all’appello, il nero per un tendine che ha fatto male troppo presto, in quell’ultima danza che sarebbe dovuta essere un lento così simile al ballo della 5ª liceo piuttosto che al suono di un pianoforte scordato.

Ma sfogliare lo spartito dall’inizio significa ripercorrere una carriera senza eguali che fa di Megan Rapinoe la direttrice d’orchestra perfetta ma anche una delle più grandi calciatrici di tutti i tempi. La bacheca brilla di un oro olimpico conquistato l’11 agosto 2012, a Londra, con il Giappone, rivale di sempre, e di due Mondiali vinti da protagonista assoluta, nel 2015 in Canada quando divise la scena con Carli Lloyd e Alex Morgan, battendo in finale, guarda un po’, il Giappone per 5-2, e nel 2019 in Francia, quando i gol furono tanti di cui uno, decisivo, nell’ultimo atto, dove con la sua nazionale a stelle e strisce ebbe la meglio sui Paesi Bassi per 2-0.

Ma sfogliando ancora, i colori balzano agli occhi e la musica si fa più forte: è il 2 dicembre 2019, per la seconda volta nella sua storia il Pallone d’Oro finisce anche nelle mani di una calciatrice, e quella calciatrice è proprio lei, Megan Rapinoe. A 34 anni è la più forte di tutte.

Le note stonate di una melodia dolcissima sono il non essere mai riuscita a vincere una finale di National Women’s Soccer League, stregata fino all’ultimo visto che anche lo scorso sabato, in quello che è stato l’ultimo atto dell’atleta 38enne, a vincere è stato il NY Gotham FC di New York per 2-1 proprio a scapito dell’OL Reign di Seattle. Ma l’ingiustizia totalizzante l’ha consumata il terzo minuto quando quel tendine d’achille faceva troppo male e l’unica via di fuga dal dolore era la strada che conduceva alla panchina, troppo breve per rivivere tutto quello che è stato ma lunga abbastanza per godersi il tributo di una standing ovation da pelle d’oca, condita dall’abbraccio dell’altra capitana, sua compagna di nazionale, Ali Krieger.

E così, mentre una mano asciugava le lacrime e l’altra ringraziava un pubblico che è sempre stato dalla sua parte, negli occhi di chi si è goduto ogni scena di una mirabolante carriera fatta anche di giocate di gran classe al di fuori del terreno di gioco, come la campagna di sensibilizzazione per una parità salariale tra uomini e donne, nei pugni stretti perchè “non doveva finire così”, c’è ancora spazio per i ricordi, per quell’esultanza a braccia aperte dopo ogni gol che forse, fino ad oggi, ha sempre significato “Eccomi qua, ci sono anche io“, ma che da domani andrà verso un messaggio più profondo, come a dire Lo spettacolo è finito, grazie di tutto mio caro football” nell’eco di un’unica risposta “Grazie a te, Megan Rapinoe, campionessa senza tempo di un calcio travolgente come il più grande degli amori corrisposti”.

foto Megan Rapinoe Getty Images 

Se io dico Roberto Baggio si alzano tutti in piedi. Poi ricordano, si commuovono, sognano ad occhi aperti, si mettono una mano sul cuore e sanno che Baggio è lì e da nessun altra parte. Uno così lo si può solo amare, né troppo e né troppo poco. Lo ami per tutto quello che ha fatto, per aver rappresentato le big del calcio italiano e le squadre di province allo stesso modo, sempre con quel sorriso, con l’eleganza, con le giocate che non ti aspetti, troppo naturali per poterle prevedere, troppo immediate per provare a goderti l’attesa del “vediamo come va”, con Baggio sapevi già come andava.
Il divin codino vinceva anche quando perdeva, la gente correva allo stadio e pendeva dal suo destro prelibato, si stropicciava gli occhi, indossava con orgoglio la maglia “Baggio 10” (o 18 per i palati fini) e ne faceva quasi una seconda pelle, talvolta a prescindere dai colori.
Ma se Roberto Baggio fosse stato “solo” il migliore nel rettangolo di gioco, probabilmente oggi la gente avrebbe ricordi sbiaditi di gol capolavoro e trofei sollevati al cielo, ed invece la timidezza, la semplicità, la lealtà con cui ha affrontato tutto ciò che c’era intorno, ne fa di lui un campionissimo senza eguali e ricordarsi i dettagli, il profumo di una giocata, l’estro che tirava fuori dal cilindro al 5′ o al 95′, è ciò che di più naturale scaturisce in quel tifoso anche romantico che sa bene che “Come Baggio non ne nascono più”.
Al Festival dello Sport di Trento a Roberto Baggio spetta l’inaugurazione, è lui a dare il là al Circus di campioni che passeggiano in piazza Duomo e si sbizzarriscono tra il Teatro Sociale e l’Auditorium Santa Chiara, e Baggio il là lo dà esattamente come solo lui sa fare, con garbo e gli occhi che brillano.
Gli basta parlare di calcio, raccontare la sua vita spesa dietro quel pallone e citare un milione di volte la passione senza mai essere ridondante o banale.

Ho giocato con una passione infinita, se non mi fossi allenato duramente non avrei fatto quello che ho fatto, non ci sono muri invalicabili per la passione,
niente arriva per caso ci vuole la perseveranza e chi non parla di lavoro dice bugie
“.

“Qualunque professione se non c’è impegno siamo vuoti, la grandezza di una persona si misura dalla voglia che ha di sfidarsi”.

“Ovunque andavo giocavo per far felici i miei tifosi, il mio unico scopo è sempre stato quello di far divertire la gente”.

“Non invidio nessuno solo chi gioca a calcio, darei qualunque cosa per giocare ancora”.

“È fondamentale il percorso che ognuno di noi fa, la sconfitta va accettata. Se io l’accettavo? In realtà quando giocavo non avevo mai l’idea di poter perdere”.

“Il calcio mi ha insegnato a non mollare mai”.

“Se non passiamo attraverso la sofferenza, non possiamo creare qualcosa di infinito valore”.

Il punto è, caro Roberto Baggio, che quando tu avevi il pallone nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo, eppure eravamo tutti emozionati.

È il Festival della Grande Bellezza e la grande bellezza non può non far rima con Roberto Baggio.

LEGGI ANCHE —-> È IL NODO ALLO STOMACO CHE MI FREGA SEMPRE

foto Alessandro Gennari


“Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel ciel infinito…”: vale scomodare Modugno per raccontare Gimbo Tamberi?

Vale, vale tutto oggi. Vorrei raccontarvi una cosa per spiegare Gimbo Tamberi dopo l’ennesima impresa di una carriera che è storia.
Agosto 2018: io, la mia follia, la mia fame di raccontare lo sport, ed un caro amico fotografo, saltiamo su un aereo con rotta verso Berlino, ci sono gli Europei di Atletica. Il day 6 di quella spedizione conta la finale di salto in alto maschile. C’è Tamberi in ripresa dopo il brutto infortunio patito alla vigilia di Rio, vediamo che combina. Sarà tornato quello del 2.39 record italiano?

La gara è un misto di emozioni, Gimbo lotta, eccome, la medaglia è alla portata, c’è la “cazzimma”, ma manca la brillantezza, 2.33 diventa l’Everest e a vincere è il padrone di casa, Przybylko, con 2.35. Io li sento i commenti attorno, “Non è più quello di prima”, “Non tornerà ad essere il Gimbo Tamberi che ci ha fatto sperare per un futuro top dell’atletica”, “Mi sa che ormai ce lo siamo giocati”, “Dovrebbe fare qualche sceneggiata in meno e lavorare di più”, eppure io avevo visto altro. Avevo visto un talento sotto le macerie, avevo visto il carattere di chi non conosce la parola arrendersi, la disperazione per un mancato podio, l’amore per uno sport che è sempre stato di più di una passione e di un’ossessione, saltare non era questione di vita o di morte, era di più, molto di più.

E poi ho visto gli occhi, gli angoli della bocca piegati all’in giù, le mani che gesticolano, ed un “fanculo” mega galattico che lampeggiava sulla fronte. In mixed zone c’era un Tamberi che mi raccontava le sensazioni, con i conti in sospeso in una mano e la voglia di spaccare il mondo nell’altra. “Ci sei Gimbo, la strada è “solo” lunga, ma è quella giusta, devi spostare ad una ad una le macerie che ti hanno investito, poi troverai la luce”. Mi ringraziasti, un sorriso amaro, forse un po’ per farmi contenta, e andasti via.

Quello sguardo sbarazzino e velato di malinconia mi restò dentro, ed oggi, ogni volta che ti vedo prenderti a schiaffi all’inizio di una rincorsa pennellata come in un quadro di Giotto, penso all’Everest che hai scalato a mani nude e alla luce che ti avvolge là, in cima, al cospetto di un mondo che ha capito, ha applaudito e si è inchinato.

L’Italia intera ti ringrazia perché l’atletica italiana ha trovato in te, “un capitano, c’è solo un capitano”, ma questo non basta, bisogna andare oltre, oltre le vittorie, oltre le medaglie d’oro, oltre quell’Inno che ogni volta è lacrime e pelle d’oca, perchè è solo oltre che scopri l’uomo, l’esempio, la gratitudine.

Ti siamo grati Gimbo Tamberi, ti sono grata: io l’atletica l’ho sempre amata profondamente, ma tu mi hai preso per mano e mi hai portato con te ad esplorare la luna, le stelle, il sole, hai spalancato una porta su un angolo di cielo di cui non conoscevo forma, né tanto meno esistenza. È l’angolo dei sogni che diventano realtà, delle leggende, di un libro bianco ed una penna, ma tu non ti sei limitato a scrivere la storia è la storia che ha scritto di te perché oggi la storia sei tu.

Resterai nell’Olimpo delle leggende italiane per sempre, ma sempre sempre sempre, con indosso un abito che nessuno è riuscito ad indossare in maniera così impeccabile, è l’abito del “Nothing is Impossible”, e dopo questa ennesima notte di magia ha definitivamente un altro senso…l’impossibile che diventa possibile sei tu.

Con il cuore in mano, ti dico grazie Gimbo Tamberi, infinitamente grazie.

foto Fidal

LEGGI ANCHE —> CAMPIONATO MI SEI MANCATO: BENTORNATA SERIE A

È di nuovo serie A, suona la campanella e si torna sui divani, telecomando in mano e la testa che abbandona ogni pensiero per quei novanta minuti di magia.
È stata un’estate strana questa per il calcio italiano, dove ci si è affezionati alle under della Nazionale azzurra riuscendo a trionfare “solo” con i 19enni del ct Bollini, dove si è pianto alle immagini di Girelli & co con le mani in faccia, fuori troppo in fretta da un Mondiale che sapeva tanto di occasione per spalancare una finestra nel mondo, dove si è seguita la querelle Mancini – Italia – Gravina, come la più disarmante puntata di Beautiful in cui tutti stanno con tutti e con nessuno.

E magari fosse tutto qui, ci ha pensato il “calcio d’Arabia” a calare un paio di assi ricoperti d’oro, stravolgendo le aspettative di chi sognava un Milinkovic Savic alla Juventus o un Demiral da prendere a 3 crediti al Fantacalcio. Le nauseanti trattative a suon di schiaffi alla povertà, hanno ammaliato una fetta importante di giocatori e procuratori che probabilmente non tornerà più indietro, e che certamente se dovesse farlo non sarà mai più la stessa cosa, perché “Chi parte per un viaggio non torna mai come prima” per dirla un po’ alla “proverbio cinese” e un po’ alla Temptation Island. E questo viaggio d’oriente ha mischiato le carte, ci ha lasciato un po’ attoniti, smarriti, increduli, ma soprattutto preoccupati: sta davvero finendo tutto?

Ci aggrappiamo agli Szczesny e Zielinsky per credere che non sia così, tra i pochi che di fronte alle miniere d’oro hanno girato la faccia dall’altra parte, ci guardiamo intorno, sfogliamo qualche quotidiano sportivo ma soprattutto i social, e ci rendiamo conto che in realtà siamo già immersi in una nuova stagione. Anche se Dazn costa troppo e ha cifre che ci fanno incazzare, anche se il campionato spezzatino ci terrà incollati alla tv pure il lunedì sera, anche se, mannaggia alla miseria, “non abbiamo comprato nessuno e sarà un’altra stagione di sofferenza”.

Quindi? Che si fa? Ma si, crediamoci ancora una volta. Rinunciamo all’aperitivo del giovedì, vediamo se alle bancarelle sul lungomare c’è già la maglietta di Retegui del Genoa, sbirciamo a che giornata c’è Juve – Milan che inizio a segnarmelo, non si sa mai, magari una puntatina allo stadio.

In fondo tra mille chiacchiere abbiamo una certezza: qualunque cosa succeda non riusciamo a farne a meno. L’app l’abbiamo già aggiornata qualche sera fa una notte in cui si faticava a dormire, con uno “Sbagliato” in una mano ed il nostro smartphone nell’altra, la prima di serie A, poi cade il 19 agosto e siamo ancora in vacanza, ma il baretto della piazza lo sa che un tavolino sotto lo schermo è già tutto per noi. E allora, senza crogiolarci troppo in questa irrequietezza ed in questa incazzatura, nera come l’abbronzatura che ancora regala alle nostre espressioni sul volto un senso di saudage, e tipica di chi ci sta capendo ben poco in questo fantomatico marasma, noi siamo ancora qua…eh già. Della serie: vediamo che succede, ma io non voglio perdermelo, che non si sa mai.

Chiudiamo gli occhi, novanta minuti, ancora novanta minuti, i nostri novanta minuti, quelli che da oggi scandiscono le settimane, quelli che ci faranno gioire, piangere, arrabbiare e godere…non c’è niente che ci renda più tenacemente vivi di quel pallone, di quel boato, di quel numero dieci sulle spalle. In fondo è solo tutto diverso nel bel mezzo di una passione che non è mai cambiata di una virgola.

Campionato, mi sei mancato: bentornata serie A.

Vorrei dire tante cose in questo momento ma forse è meglio sbollire la rabbia per un Mondiale Femminile che sarebbe dovuto e potuto essere tutt’altro.

L’Italia è fuori dai giochi e lo fa dopo una partita dominata dalla paura negli occhi, ed è questa la cosa che fa più male. Perchè c’è sempre modo e modo giusto? Perchè il testa bassa o testa alta vale tutto, giusto? Ecco, e allora è racchiuso lì il senso di ogni discorso, anzi, vado oltre, il senso dello sport.

Le tante scelte sbagliate e che forse solo chi segue il calcio femminile può capire, portano al suicidio tecnico e tattico, ma questo non può andare ad inficiare sulla mancanza di certezze e di consapevolezze, su un cuore ed un’anima che erano pronti a dare tutto e che invece sono stati forzatamente rinchiusi in gabbia senza trovare la chiave per far provare loro l’ebrezza della libertà.

E davvero, io mi chiedo, e questo vale a qualsiasi livello, come puoi pensare di affrontare una partita mondiale con il cuore in affanno e lo sguardo che traballa? Come puoi credere di mettere in fila, passo dopo passo, un cammino in cui raccogliere fiori e luce senza il sorriso sul volto?

Come puoi pensare di giocarti tutto senza coraggio? Il coraggio di rischiare una giocata, il coraggio di guardare negli occhi un’avversaria 15 centimetri più alta di te, il coraggio di fare scelte dolorose ma almeno sensatamente giuste, il coraggio di credere nell’esperienza, nel valore, nella volontà di ogni singola pedina di un domino che ora, ahinoi, è crollato rovinosamente a terra, mischiando ogni pezzo. E forse, alla luce di tutte queste constatazioni, ancor di più il coraggio di prendersi delle responsabilità…e questo è il più imperdonabile degli errori.

Se questa sera, sulla pagina IG di Donne sui Tacchetti, si parlerà di scelte, di tattica, di numeri, qui, l’ho già detto, lascio fluire le emozioni, e sono troppo arrabbiata, delusa, rammaricata, per tutto quello che poteva essere, e non è stato.

È il Mondiale femminile dei rimpianti? Sì, per l’Italia, è il mondiale femminile de rimpianti.

LEGGI ANCHE —> ITALIA FEMMINILE: DAI SORRISI ALLE LACRIME, MA C’È ANCORA UN “NOI”

L’Italia femminile cade ed il tonfo fa sempre male, le ginocchia sbucciate bruciano, le lacrime a fatica rimangono lì, tra l’iride e la pupilla, gli angoli della bocca scivolano in giù mentre la testa soffoca di domande.

Se per mezz’ora te la giochi alla pari o anche meglio rispetto ad una corazzata che fa del calcio femminile un fondamento della propria cultura sportiva, è perché allora vali più di quattro noccioline all’aperitivo, e perchè le tue certezze sono costante. Poi subentrano esperienza e fisicità come un tackle di quelli che non fa sconti ed in sei minuti senti crack. Nel punteggio, nella testa, nelle gambe. Non gira più nulla. Ed in un attimo appaiono i fantasmi di un anno fa, mentre ti guardi attorno sbigottito alla ricerca di un volto che possa darti speranza.

Potrei parlare di ranking mondiale, di fisicità, di come sono stati preparati i calci d’angolo, degli errori individuali, delle scelte della ct e di tante altre cose, e potrei farlo in maniera totalmente costruttiva, ma questo preferisco farlo su altre pagine, oppure potrei sparare a zero, mettermi la toga e lanciare sentenze della serie “l’udienza è tolta” manco fossimo a Forum, ma quest’onore lo lascio soprattutto ai salotti social dei leoni da tastiera incravattati che anche oggi il massimo dello sforzo lo hanno fatto collegando il loro smartphone alla corrente, mica che si spenga sul più bello dei commenti beceri, io qui parlo di emozioni.

Un’emozione enorme e travolgente dall’Inno di Mameli alle mani di Giulia Dragoni, che dopo una sconfitta del genere, tutto ciò che riesce a fare è asciugarsi le lacrime e coprire il dolore che non ti aspetti, che poi, l’inaspettato, è sempre quello che fa più male. Ecco, è qui che mi soffermerei. Io ti auguro di conservarle quelle lacrime, cara Giulia, che ti rendono ancora più vera, più sedicenne tutto cuore. Tienile lì, nel palmo di una mano, non lasciare che le porti via il vento, conservale, fanne tesoro, un giorno capirai la bellezza di quel sentimento e forse, ci riderai anche un po’ su, ripensando a questa serata. Che poi, se proprio devo dirla tutta, io le lacrime le metto in bella vista, le lascio fronte sole, è lì che riflette la luce.

Forza ragazze, forza Italia femminile, c’è vita, c’è aria nei polmoni, c’è il Sud Africa, ma soprattutto ci siete voi e noi, INSIEME.

foto azzurrefigc

Ebbene sì, come d’incanto, Cristiana Girelli.
La prima partita dell’Italia al Mondiale Femminile la riassumi in quelle lacrime miste a grinta, in quell’esultanza, in quell’abbraccio che toglie il respiro, così stretto da non volersi disunire più. Ma su questo non c’erano dubbi perché un’Italia così unita vuole “solo” scrivere un pezzo di storia.

La penna, o la bacchetta magica che dir si voglia, oggi è passata tra le mani di Cristiana Girelli, che quel numero dieci sulla schiena non gliel’hanno certo cucito lì per caso e che chissà quanti pensieri deve aver collezionato nella sua testa per ottantaquattro minuti. Io me la immagino così la sua partita.

Fremi, incoraggi le compagne, ti agiti per un fuorigioco di qualche centimetro, tiri un sospiro di sollievo, poi dai un’occhiata alla coach, e anche un’altra, “magari mi nota, io ci sono”. Ti chiama a scaldarti, ma poi ti accomodi di nuovo. Guardi il tabellone, minuto 75 e ancora 0-0, “Dai mandami in campo, fammi giocare”, alzi lo sguardo un po’ timidamente e provi ad incrociare il suo. “Accelera Cristiana che tocca a te”, boom, prima scossa. Intensifichi il riscaldamento mentre c’è un rombo di tuoni nella tua testa ed un concerto di emozioni nel tuo stomaco. Le tieni a bada, devi essere concentrata, anche se un po’ ti lasci cullare da quella magia lì, è nota lieta, candore, purezza, cuore. Mannaggia al cuore oh, che ce lo metti sempre.

Ti liberi della pettorina come una leonessa che sta evacuando dalla gabbia, la lavagnetta si alza, c’è il numero di una 16enne piena zeppa di personalità che sta uscendo, ed il tuo numero, il numero dieci, quello dei leader, che sta entrando, tu che di personalità nei sempre avuta da vendere, fin da quando ti facevi largo tra la folla di un settore giovanile colmo di maschietti e con la tenacia di chi sapeva già cosa fare da grande “Io farò la calciatrice”. E così entri per davvero, il tuo Mondiale inizia in questo momento, all’84esimo, quando mancano appena 360 secondi per prenderti la scena. “Un’enormità” devi aver pensato, “posso fare di meglio”, e così in 180, mentre Boattin, che ti conosce bene, afferra dalla scatola dei “cioccolatini” quello più gustoso, tu lo scarti e lo trasformi in un Uovo di Pasqua nel mese di luglio, se non è una magia questa.

E la sorpresa? Nessuna sorpresa per chi ha segnato quasi 250 reti in carriera e più di 50 in Nazionale. Ma poi basta guardare il tuo volto, con quella “cazzimma” che potrebbe riempire almeno altre 12 carriere, e quelle lacrime che mai come oggi hanno il sapore più dolce.

Il tuo momento, “Il mio momento”, ripeti a basse voce, il nostro momento, gridiamo insieme.
INSIEME.
Questa magia non conosce limiti.
Si canta già: “Notti magiche” ad Auckland stanotte, “Giornate magiche” in Italia, dall’altra parte del globo.
E allora lo vedi Cristiana? Era già scritto, era già tutto scritto, era anche il 1990, il tuo anno, quando “Si inseguiva un gol sotto il cielo di un’estate italiana”… …grazie per averci messo la tua bacchetta magica, è così che il destino si trasforma in sogni, ed è così che i sogni si trasformano in realtà.

Foto Azzurre Figc

LEGGI ANCHE —> MONDIALI DI CALCIO FEMMINILE, C’È TUTTO UN MONDO INTORNO


Avete mai contato fino a 42137? Quarantaduemilacentotrentasette…come i motivi, come i sogni, come le volte in cui avete indossato un paio di scarpe con i tacchetti, come i respiri che vi hanno tenuto sveglie la notte e a distanza di sicurezza da un desiderio troppo grande per essere cullato da due mani troppo piccole, come i viaggi sulla luna andata e ritorno per un gol segnato al 90esimo o per un trofeo alzato al cielo, come le lacrime versate miste a sudore per ogni panchina di troppo, per ogni papà che non capiva le vostre scelte, per ogni sfottò quando vi presentavate al campetto del vostro oratorio e con voce timida sussurravate “Posso giocare anch’io?”, ai bulli del paese.

Quarantaduemilacentotrentasette come i graffi che avete contato sulla vostra pelle dal primo giorno di fatica ad oggi, come le ore in azienda prima di correre al campo ad abbracciare le vostre compagne, il vostro amico pallone, come i gradini scesi, saliti, scesi e saliti ancora al 18 di agosto, mentre le vostre amiche se la spassavano al mare tra un Mojito ed una serata in disco, e voi, sotto il sole cocente, agli ordini di un mister che sembrava non averne mai abbastanza.

Quaranta-due-mila-cento-trenta-sette, va scandito bene…non è un po’ troppo poco? Quanti zeri mancano per dare davvero un senso a questo racconto, a questa storia che altro non è, che la vostra storia? Eppure da questo numero non si scappa, non oggi (ieri) almeno, perchè 42.137 paia di occhi erano lì vicino, così vicino a voi da formare un tutt’uno con quel prato verde che sarebbe troppo facile accomunare alla speranza, osare, oggi, vuol dire accomunarlo alla realtà.

Nuova Zelanda – Norvegia è realtà, la nona edizione dei Mondiali di calcio femminile è realtà, il nuovo record di pubblico per il calcio, in Nuova Zelanda, non solo femminile, è realtà. Sì perché l’Eden Park di Auckland tutta quella gente non l’aveva mai vista prima. Ma anche comunicare ad uno stadio intero la decisone del Var, con un rigore assegnato alle padrone di casa ma poi sbagliato da Percival, è realtà. E poco importa per la traversa, la Nuova Zelanda contro la più quotata Norvegia ha vinto lo stesso, 1-0 firmato Wilkinson, stesso punteggio per Australia – Irlanda con Catley che invece il rigore non lo sbaglia e finisce dritta dritta nel tabellino marcatori, come a dire che giocare in casa non porta malaccio.

E adesso che succede? Succede, care ragazze, che se di sognare non ne avete avuto abbastanza e di osare tanto meno, potete spuntare dalla lista dei desideri quello che sta in cima “Giocare ad un mondiale di calcio femminile”, e potete scegliere a quale più remoto sogno delle vostre menti, affidare il primo posto, perché in fondo noi donne siamo fatte così, irrequiete ed incontentabili, collezioniste di obiettivi, insaziabili sognatrici. Ma da soggetto diventate anche complemento perché mentre sarete a caccia di (ri)vincite, c’è un mondo intero che vi ha già messo al primo posto e che sta sognando tramite voi, con voi e per voi: poi ci penseremo ai numeri, al gol mangiato, ai crampi, ai bla bla bla, alle partecipanti passate da 24 a 32 (leggi QUI un po’ di considerazioni), al montepremi triplicato rispetto al Mondiale di Francia 2019, alle favorite, ai diritti tv, alle parole di una giocatrice dello Zambia che, ahinoi, sono solo le parole non dette di chissà quante altre atlete…

…ci sarà un tempo per ogni cosa, ma questo è il vostro tempo, il vostro momento: chiudete gli occhi, mettetevi la mano sul cuore, riempite i polmoni e fate il vostro ingresso in campo, lasciando spazio alla bambina che ci ha sempre, sempre, sempre creduto: che i Mondiali di calcio femminile abbiano davvero inizio.

Caro Andrew Howe, ti scrivo, così mi distraggo un po’. Lucio Dalla cantava così quando voleva arrivare con musica e parole alle orecchie e agli occhi di un amico lontano, io invece ti scrivo non tanto per distrarmi quanto per focalizzarmi su tutto ciò che è stato, su tutto ciò che potrà essere e forse sarà per davvero.

Andrew Howe

Partiamo da lontano, molto lontano. Che anno era? Avevi già iniziato a vincere, avevi già messo in fila più di qualche record, e di lì a poco era nato un gruppo sul web perlopiù di ragazze(ine) scatenate che cercavano notizie su di te e si raccontavano la qualunque. Erano i tempi in cui ai fans (non ai followers dell’epoca moderna sia ben chiaro) si dedicavano le chat. Eravamo tutti iscritti al tuo sito ed ogni tanto ci si organizzava e passavi di lì a salutarci. Era il 2009, io era una ragazza semplice alle prese con gli studi ed il lavoro (quante finestre di chattate ho chiuso ogni volta che il capo passava nei paraggi del mio ufficio 😂), il sogno di fare la giornalista sportiva e la testa tra le nuvole, tu, invece, un campione che aveva già iniziato a farsi strada, un cassetto altrettanto pieno di sogni e speranze e quell’irrefrenabile voglia di spaccare il mondo.

Un giorno succede che ti colleghi alla chat e scrivi: “Ho una bellissima notizia, potremo incontrarci, sarò ospite di una discoteca in zona Varese”. Il Gilda. Il Gilda, Il mio (da quel momento) amato Gilda. Andrew Howe al Gilda, che fai te lo perdi? Organizzo la macchinata venerdì si va al Gilda è deciso. Ecco, è nato tutto lì. Cosa sia nato esattamente non è dato saperlo, ma dev’esserci un’etichetta ed un nome per ogni cosa? Io dico di no, non sono mai stata troppo amante delle definizioni assolute. “Andrew, vorrei chiederti tante cose…” “E chiedimele, chiedimele” con quello spiccato accento romano ed un sorriso che rubava la scena. Immancabili Jeramy e Mamma Renè che da lì, forse, mi ha preso un po’ a cuore (ed anche io ho preso a cuore lei ancor di più in questi ultimi mesi 🤞🏽❤️).

Andrew Howe

Nella stessa estate sono volata a Barcellona. Europei di atletica leggera, che fai non vai? Ti ho seguito alla Notturna di Milano, sono venuta a salutarti negli alberghi, ho passato i pomeriggi davanti alla tv, ho tifato per te, ho pregato per te. Quando quei maledetti infortuni non ti davano tregua, quando la gente si fermava all’apparenza, quando per ogni “Si è montato la testa troppo in fretta” rispondevo per le rime con un “Chiunque abbia qualcosa da dire su Andrew Howe deve vedersela con me”. Ti ho chiesto sostegno quando mi sono rotta la gamba (e di nuovo Mamma Renè…”Ho paura di non riuscire più a correre, di non poter più giocare a calcio” le dissi, e lei rispose “Se lo vorrai, ritornerai”). Il destino ha voluto che nel 2014 ci rincontrassimo di nuovo, fuori dalla stadio Olimpico di Roma. Ero in trasferta con i miei colleghi “Guarda c’è Howe”, “Ma io lo conosco”, e chi mi credeva? Poi è bastato un “Andrew, ti ricordi di me?” e si è riaperto un mondo di sorrisi “Maryyyyy, ma sei proprio tu, come stai?” rosicarono un po’ tutti.

Oh Andrew, non sai quanto ero innamorata del tuo gesto atletico, quando t’immergevi nella sabbia sembrava una sinfonia, l’eleganza del salto, lo strapotere nel toccare la pedana e volare, i muscoletti che straripavano sotto una divisa azzurro Italia che tu stesso hai strappato perchè “l’adrenalina non si reprime”, il mio urlo in quell’agosto del 2007 di fronte a otto metri e quarantasette centimetri di puro godimento, ancora rimbomba nel cortile di casa dei miei genitori, dove sono cresciuta. Ero convinta ci avresti fatto cantare l’Inno a squarciagola in una umida Londra del 2012 o in una calda Rio del 2016. Ci ho creduto così tanto che quasi la sento nelle orecchie l’orchestra. Chiudo gli occhi e ti vedo ancora lì, su una pista rossa, sorridente da accecare il mondo, con gli occhi chi sprigionano vita e abbracciano. Perché con te bastava un istante per sentirsi sulle montagne russe, e quello dopo a casa di fronte ad un camino, con un buon libro in una mano ed un bicchiere di vino nell’altra.

Andrew Howe

E adesso che succede Andrew, si volta pagina? Già, si volta pagina. È arrivato il duplice fischio.
La tua intervista a Verissimo mi ha sorpreso solo fino ad un certo punto, questo ritiro era nell’aria e credo sia la cosa giusta nei tempi giusti. Ma mi ha ho comosso, ancora una volta. Guardarsi indietro, a volte, ci fa vedere ancora più nitidamente le cose che non sono andate come avremmo voluto, ma ci fa anche cogliere l’essenza dei dettagli che ci sono sfuggiti. Credo sia così anche per te. Quando il pensiero si fossilizza sui “se” è difficile anche solo programmare il domani più vicino che ci sia, ma “Nella vita si diventa grandi nonostante” (cit. MG). E tu sei grande. Sei UN grande. E lo sei sempre stato. Anche quando le cose non venivano ed i sogni s’infrangevano. Averci provato, con tutte le tue forze, non solo ti ha fatto sentire vivo ma ha fatto sentire viva anche me, noi, e ti ha eletto a Campione, uno di quelli rari, uno di quelli che segna ma soprattutto insegna.

Credo che se ancora oggi diversi atleti si ispirino a te, alle tue imprese, e si dannino per battere i tuoi record è perché vali molto di più di una pacca sulla spalla. Credo che se un certo Marcell Jacobs ti ringrazi per l’esempio che gli hai dato è perchè in quei metalli pregiati vinti a Tokyo ci sia dentro un po’ anche tu, ma credo anche che l’uomo che sei diventato nel tempo non potrebbe fare da contraltare nemmeno ad un milione di ori olimpici. Vincerebbe a mani basse perchè di fronte a te persino i concetti di eleganza, umiltà, spirito di sacrificio, impallidiscono. Unico è il solo aggettivo che mi sobbalza alla mente e che si avvicina un po’ a ciò che sei stato.

Ma unico è anche il destino che ti aspetta: prendi tra le dita le bacchette della tua amata batteria, lo senti il ritmo dei tamburi all’unisono con quello del tuo cuore? Ecco, dagli una chance di essere felice.

Buon secondo tempo Andrew Howe, sempre al tuo fianco, anche adesso, soprattutto adesso.

Ti voglio bene

Mary

Leggi anche —> GIANLUCA VIALLI, UNO DI NOI: BUON VIAGGIO CAPITANO DI QUELLA NOTTE MAGICA