Descrivere Gianluca Vialli è così difficile ed allo stesso tempo è così semplice. Faccio fatica a trovare il filo conduttore di quelle emozioni nate ad Italia ’90, passate per la notte juventina più magica di sempre, rivissute in una veste diversa, inaspettata, sconvolgente, a Wembley, un paio di estati fa.

Oggi i social si riempiono di cordoglio, di ammirazione, di elogi, all’uomo, al Campione, all’amico, al padre, al marito, all’allenatore, e c’è chi menziona gli occhi di un ragazzino che giocava sui campi degli oratori di Cremona, c’è chi dice che quegli occhi, quello sguardo non lo abbia perso mai.

Mi perdo via nel leggere i commenti di chi “sa tutto” di questa malattia infame, di chi crede ci sia un giusto e uno sbagliato nel modo di viverla ed interpretarla, e di chi pretende anche di sapere come sia dovutamente necessario raccontare il dolore. No, io non credo sia così. In un mondo di leggi che tengono in gabbia persino le intenzioni, voglio ancora pensare che di fronte ai sentimenti, e al libero arbitrio, non ci siano regole. Tutto ciò che condanno è l’ostentazione.

Gianluca Vialli era uno di noi. E lo era perchè ha trovato sempre il suo modo di vivere le cose. Ha trovato la grinta di ribaltare le partite, ha trovato l’estro di una rovesciata un po’ folle, quella dove se la sbagli prendi insulti dai compagni perchè “Bastava una roba semplice”, ha trovato il conforto nell’abbraccio di un fratello quando il destino era già segnato, ma più di tutto ha tenuto intatta la dignità di un Uomo alle prese con un dolore ingestibile, ingiusto, contraddittorio, sconfinato. Perchè? Ci si chiede così tante volte, perchè…lasciando che questa domanda irrisolta tolga il tempo di perdersi nei respiri che contano davvero, nelle emozioni del “qui e subito”.

Ho un frame nella testa ora: la felpa che indossava Vialli in quel 22 maggio 1996. Che c’entra direte voi…

Ecco, nel volto di Jugovic la strada per la gloria distante appena undici metri, negli occhi del capitano, il coraggio di un uomo che dice “Vai avanti tu, non ce la faccio”. Gianluca Vialli non avrebbe tirato alcun rigore in quella notte, probabilmente non se la sentiva, proprio lui che con il suo carisma aveva trascinato la squadra fino agli ultimi novanta minuti di un percorso epico. Una strada lunghissima compiuta alle spalle e di fronte, invece, appena undici metri. Juventus – Ajax finì 5-3 dopo i calci di rigore. Ferrara, Pessotto, Padovano e poi Jugovic. Infallibili. Il resto lo fece Peruzzi respingendo al mittente due penalty. Non ci fu bisogno dell’ultimo tiro che probabilmente sarebbe spettato a Del Piero. Ma non a Vialli, non al capitano. Lui aveva già la felpa, la sua corazza.

Vialli è l’elogio alla debolezza, con una felpa addosso o con tre maglioni sotto la camicia per nascondere i segni di una lotta continua, non fa differenza. Vialli è un bimbo grande che piange davanti a tutti e non si vergogna nel farlo è colui che dice: “Non è vero che il cancro è il grande nemico da sconfiggere, non è una lotta per uccidere lui, ma è una sfida per cambiare se stessi”.

E ancora: “Ho meno tempo per essere da esempio, adesso so che non morirò di vecchiaia. In questo senso cerco di essere un esempio positivo insegnando ai miei figli che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita. Ridere spesso, aiutare gli altri: questo è il segreto della felicità”.

Buon viaggio Capitano. Grazie per avermi regalato una delle notti più indimenticabili della mia vita. Mio padre mi disse: “Andiamo in piazza a festeggiare, Mary vieni anche tu?”. Quella bambina che il giorno dopo andò a scuola con i segni sul volto di una notte insonne, non aspettava altro.

Il 22 maggio 1996 me lo ricorderò per sempre, e per sempre te ne sarò grata.

Ciao Luca, ciao bomber.

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Se vi dicessero che la prossima partita di vostro figlio verrà diretta da un arbitro donna, probabilmente vi mettereste le mani nei capelli, sbraitereste, imprechereste chissà quale divinità o, nella migliore delle ipotesi, storcereste il naso.

Io li sento ancora nelle orecchie l’eco dei commenti raccolti sulle tribune di periferia: “La domenica mattina dovresti stare a casa a stirare”, “Signorina lei è buona solo per una cosa”, “Ma a fine partita me lo lasci il numero?”, “Una donna a commentare il big match di oggi, dove siamo arrivati”, “Quanto scommettiamo che stasera questa viene a cena con me?”. Così, tali e quali, virgole comprese, indirizzati alla giornalista, alla dirigente, al direttore di gara di turno.

Ci sono voluti più di 120 anni di serie A per far sì che un giorno, in un Sassuolo – Salernitana qualsiasi, sbucasse lei, Maria Sole Ferrieri Caputi, un arbitro donna. E fa notizia, già, fa notizia. Ed oggi è un bene così, è giusto che se ne parli, sono sensate le copertine, i commenti, i giudizi (senza pre davanti per una volta), sensato il clamore, lo sbigottimento e anche l’incredulità. Va bene tutto. E va bene perchè questo è a tutti gli effetti l’inizio di una nuova era, l’era in cui la meritocrazia inizia a sgomitare tra la folla a tal punto da rubare la sedia a chi vive in poltrona da una vita, cuscino morbido rosso sotto il sedere e vista dall’alto con servizio bar incluso.

Di fronte a questi perbenisti che non passano mai di moda, le trovate tutte in riga là le donne che non si sono mai arrese: elmetto in testa, scudo, lancia, ed un’armatura che abbraccia un corpo ricco di ferite e ammaccature, ma che a fatica contiene un “cuore grande così”. Passa tutto da lì: le emozioni, la competenza, la leggerezza, la cassaforte a doppia combinazione di sogni mai compresi ma non per questo abbandonati. Il cuore di una donna si affida al proprio battito per scandire i sacrifici di una vita, il cuore di una donna che ce la sta facendo non conosce affanno che non possa domare, amore al quale resistere. E quell’amore se lo costruisce da sola, nel tempo, con pazienza e determinazione, collegandolo indissolubilmente alla rima baciata del proprio talento e della propria passione.

Ed è così che voi, non tutti, ma ancora troppi, quando pensate di aver vinto la partita, venite infilati nel recupero senza nemmeno riuscire a capire da dove sia passato il pallone, probabilmente eravate già impegnati a festeggiare sotto la curva.
Può sembrare incredibile, lo so, ma non bastano centoventi anni per fermare una donna che sa cosa vuole e che merita di stare dove ha scelto di andare.

In bocca al lupo per il prosieguo della tua carriera Maria Sole Ferrieri Caputi, mi auguro che la tua forza di volontà e la tua tenacia siano d’esempio per tutte quelle persone che pensano di non farcela, uomini o donne che siano non fa alcuna differenza.

Foto Fonte FB

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Il mio Festival dello Sport sta volgendo al termine, tra poche ore sarò di nuovo a casa ed ancora una volta porterò dentro di me tutte le risposte a quell’unica domanda: “Ma perché hai scelto questa vita?” come se ci fosse davvero un perché.

Spiegare non fa più parte di me, raccontare sì. Raccontare sempre. Colorare il mio blog con le mie emozioni mi aiuta davvero a focalizzarle, a rendermi conto di ciò che ho vissuto e di tutto quello che ancora ho davanti a me; il bicchiere mezzo vuoto, per me resta un’accezione positiva (soprattutto se la metà mancante me la sono scolata io 😂).

Il Festival dello Sport, part 2

La seconda parte del mio Festival è tante cose ma più di tutto è Claudio Marchisio e Federica Pellegrini. Nome e cognome. Il principino e la divina, l’eleganza bianconera tatuata dentro, mischiata al midollo, e la grande bellezza di colei che ha rescritto il significato di limiti. E di record. E di impresa. E di tante altre cose. Ma mi sono sorpresa anche con un Fausto Desalu semplice, con Batigol e Zanetti, con le campionesse del mondo di volley di vent’anni fa e con il professore Seedorf. È stata la solita full immertion in un frullatore di emozioni che però di solito e di uguale a ciò che già era stato, non ha proprio nulla.

Inutile che stia a snocciolarvi ore d’interviste, se questo blog si chiama Mary Seven ci sarà un motivo, e allora facciamo che di ogni incontro vi evidenzio le sette affermazioni che mi sono piaciute di più (con qualche eccezione nel numero, concedetemelo).

Stano – Crippa, nati per correre

“La fatica non sempre riesci a domarla, però alla fine ti ripaga”. (Yeman Crippa)

“Arrivare in Italia per me è stato come arrivare in paradiso”. (Yeman Crippa)

“Io voglio riscrivere la storia a modo mio e spero fra 30 anni quando qualcuno batterà i miei record di non dire le stesse cose che ha detto Antibo e di applaudire chi riuscirà a sopravanzarmi”. (Yeman Crippa)

“Riportare l’oro mondiale in Italia, nella marcia, dopo 19 anni, è un orgoglio infinito”. (Massimo Stano)

“Io mi diverto faticando, non è facile da far capire, soffro così tanto in allenamento che poi in gara è una goduria”. (Massimo Stano)

“Nel mio paesino manca la pista, ho tirato una frecciatina al mio sindaco e gli ho mandato una foto da qui, poi gli ho detto “Vedi tu cosa devi fare”…ma io la pista non la vorrei per me, la vorrei per togliere i giovani dalla strada, lo sport ti insegna tante cose”. (Massimo Stano)

Quando faccio un risultato punto a trasmettere le mie emozioni ed esperienze ai bambini, i bambini iniziando dallo sport girano il mondo, non conoscono diversità, socializzano, crescono, scoprono, questo è il bello”. (Massimo Stano)

Claudio Marchisio, il principino, fino alla fine

“Tornare alla Juve? Non sono mai andato via”.

“La Juve il primo amore, il primo sogno, il primo momento in cui mi hanno dato la borsetta, era il ’93, per me era Natale”.

“Ho detto non ce la faccio più, mia mamma non mi diede pressioni, lei prese tempo, mi disse aspettiamo un mese, se non cambia questa situazione, prendiamo una decisione”.

“Per il sogno non basta talento e impegno, devi avere l’insegnante giusto, in questo caso i miei genitori”.

“Il dna della Juve è uscire dalle difficoltà con la forza del gruppo”.

“Gigi ha detto che non gli servono i trofei per capire il proprio valore e ha ragione, ma io non riesco ancora oggi a digerirla”.

“Miretti è una bella notizia, non solo per Juve ma per il calcio italiano, la parte più bella è la sua spensieratezza”.

“C’è un Marchisio nel calcio italiano? Questa è una domanda che ti fa capire che gli anni passano”.

“Si lasciano andare gli italiani forti e si prendono stranieri che poi vengono qui e non danno nemmeno tutto”.

“Le uniche barriere che mi piacciono sono quelle sulle punizioni”.

“Mi è scattato qualcosa la sera della finale di Champions quando ho visto quello che era successo in piazza San Carlo, ho detto “Bisogna fare qualcosa”.

“Bandiera non è il tempo che stai con una squadra è quanto dai a quella squadra”.

Re Giorgio Chiellini, un miracolo sportivo

“Due mondiali mancati, il rammarico è non poter fare vivere quelle emozioni ai bambini”.

“Cosa sta succedendo alla Juve? Vorrei tanto saperlo ma io soffro come tutti i tifosi”.

“Il rimpianto più grande è non aver giocato la finale di Berlino, avremmo perso uguale forse, ma avrei meritato di giocarmela”.

“Nel calcio l’intelligenza è riuscire a mantenere l’equilibrio dentro e fuori dal campo, questi sono i campioni, questi sono quelli che ce la fanno”.

Federica Pellegrini, la divina

“A Tokyo sorridevo mentre nuotavo, ho capito fosse l’ultimo atto mentre giravo nel villaggio olimpico, non potevo fare niente in più di quello che ho fatto”.

“Mi auguro che chiunque vinca le elezioni si impegni a salvare lo sport, lo sport deve essere non solo protetto ma proprio aiutato”.

“Lo sport è il motore trainante di questo paese”.

Da Batigol a Zanetti, tango argentino

“Messi – Maradona? Dieci a tutti e due, ma credo che la leadership di Diego fosse diversa, era più influente, oggi però Messi è maturo al 100% ed è pronto per questo”. (Javier Zanetti)

“Quanto al look io sono nato così, l’ho chiesto pure a mia mamma, mi sveglio già pettinato”. (Javier Zanetti)

“Quando fai l’errore cresci, quando lo capisci impari”. (Javier Zanetti)

“La differenza la fanno i valori umani, quando riesci a trasmettere quelli sai che hai vinto”. (Javier Zanetti)

“Il risultato è un impostore, sia nella sconfitta che nella vittoria, il mondiale 2002 ci ha visto uscire al girone, io non lo vedo un fallimento, noi abbiamo dato tutto”. (Batistuta)

“Ho perso molto, molto più di quello che ho vinto, ma è così che ho fatto carriera”. (Batistuta)

“La sconfitta è una buona consigliera, ma quelli intelligenti imparano anche dalla vittoria”. (Batistuta)

Fausto Desalu, veloce come il vento

Per il campione olimpico della 4×100 non ho delle citazioni, è un ragazzo semplice che si confonde con la folla, un atleta umile, dedito alla mamma e al sacrificio. Ma quello che mi ha colpito più di tutto è stato il gesto di chi lo ha intervistato, Carlo Martinelli.
“Dalla mia infinita collezione di libri ne ho sottratto uno, 19.72, autografato da Pietro Mennea, in fondo ti scrivo il mio numero di telefono, quando arriverà questo giorno, quando batterai questo record mi chiamerai e ci abbracceremo virtualmente”.
Spiazzata. Ho comprato il libro, “Veloce come il Vento” e me lo sono fatto autografare.

“Non avevamo fatto 12mila km per sognare in piccolo, volevamo sognare in grande. Stasera si fa la storia, ci credete ragazzi?”

Piccinini – Lo Bianco – Togut, vent’anni dopo

Nel continuo botta e risposta di tre campionesse mondiali artefici di un 2002, c’è ancora la stessa intesa. La Picci non le manda mai a dire, e le sue facce la dicono lunga, Leo Lo Bianco giostra il gioco, Togut schiaccia qualsiasi cosa passi ad altezza rete “In quella finale penso di avere schiacciato qualche palla anche ad occhi chiusi”. E sono tante le similitudini con La Nazionale che ha appena iniziato l’avventura mondiale e che vuole sognare e farci sognare.
“Negli occhi dei ragazzi di Fefè ho rivisto lo stesso ardore che avevamo noi, vent’anni fa, è passato tanto tempo ma se ci penso bene non è passato nemmeno un giorno”.

Zitti tutti, al Festival dello Sport arriva il prof. Clarence Seedorf

“La sensazione che puoi competere con chiunque e vincere contro chiunque significa essere usciti dalle difficoltà ed essere una grande squadra”.

“Il gol a Buffon? Come mi è venuto in mente di tirare da lì? Ancora me lo chiedo pure io”.

“La mentalità di essere migliore dei migliori, questa cosa nasce da piccolo, la capacità di essere pronto per grandi sfide la puoi allenare, ma devi essere bravo a gestire le emozioni, io l’ho imparato col tempo questo”.

“432 presenze con il Milan, lo straniero che ha avuto più presenze con questa maglia, ma la partita più bella resta sempre la prima, senza quella non ci sarebbero state le altre”.

“Quanto mi è mancata l’Olanda nel mondiale del 2006 e quanto sono mancato io a loro? Non ho rimpianti per le cose che ho deciso io”.

“Ti sei chiesto perché non sei di nuovo in panchina?
L’Italia non è un paese razzista, ma talvolta lo è il sistema e questo sistema non dà pari opportunità”.

“Ad ottobre sarai di fronte a 54 ministri dello sport in Turchia, cosa gli dirai?”
Che si devono dare una svegliata”.

Festival dello Sport, quanto manca alla prossima edizione?

Foto Festival dello Sport

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Succede che Trento si riempie di voci e si colora di rosa, succede che prendi un treno, scendi di fronte a Piazza Dante e capisci in un attimo che nemmeno quest’anno potevi perdertelo, succede che quando sui social appare la scritta “Festival dello Sport” e le date, nonostante magari sia gennaio, hai già segnato sull’agenda una frase tipo “Non ci sono per nessuno”. Ecco questo è quello che succede prima perchè poi, quando lo vivi, succede tutt’altro.

Cosa? Bella domanda. Spiegarlo non è semplice, sposo a pieno il pensiero “È un po’ come stare nel villaggio olimpico ed esplorarne ogni angolo”, perchè in fondo è proprio così. Correre tra un teatro e l’altro, fare un giro in piazza Duomo, gustare un bretzel in un locale tipico, e poi c’è l’incontro al Palazzo della Regione e “Guarda che belli i ragazzini che provano la pista di atletica”, e sono giornate così piene che non lo sai, per te restano leggere anche quando a mezzanotte sei in una camera d’albergo e provi a scrivere mentre un occhio si chiude e l’altro è già sul programma di domani.

Il Festival dello Sport, day 1

Il Day one del Festival dello Sport 2022 è già una partenza col botto. In piazza Duomo si alternano Teo Teocoli e Jury Chechi nella presentazione dei loro libri, c’è fermento e si scaldano i motori in attesa dell’inaugurazione, mi correggo, della Grande Inaugurazione. Perchè al Teatro Sociale arrivano Cairo, il direttore di Gazzetta dello Sport Stefano Barigelli, Giovanni Malagò, Marcel Jacobs, Ilaria D’Amico, Gli Autogol, Federica Masolini, Pierluigi Pardo, Luca Pancalli e probabilmente altri 150 ma gli occhi sono per l’ospite d’onore, Gianluigi Buffon.

Inutile che stia a snocciolarvi quasi un’ora d’intervista, se questo blog si chiama Mary Seven c’è un motivo, e allora facciamo che di ogni incontro vi evidenzio le sette affermazioni che mi sono piaciute di più.

Gigi Buffon, il numero uno dei numeri uno

“Federer una di quelle icone che quando smette ti fermi un po’ anche tu”

“Io continuo a giocare perché la domenica non voglio andare al centro commerciale con la D’Amico”

Il tifoso si aggrappa ancora a me ed è orgoglioso di me

Non ho bisogno di vincere otto Champions o anche solo una per sapere quanto valgo

Ci sono cose che sono sotto gli occhi di tutti, ma ci sono cose che un profano non vede, tipo un richiamo al momento giusto, una parola, un gesto piccolo che poi in realtà ti svolta una stagione

La normalità è la vera trasgressione di una persona

“Chiellini è il più grande miracolo sportivo che io abbia visto”

Marcel Jacobs, al Festival dello Sport è tornato il Re

“Dopo le Olimpiadi volevo dimostrare che ho passato tutta la vita a lottare per questo

Arrivare in finale significa che siamo tutti sullo stesso piano, lì però non devi aver fretta di fare le cose, che sembra un paradosso nei 100 metri, devi rispettare i tempi”

“Ho capito che nella mia vita non ci sono state sconfitte, ci sono state delle delusioni ma io non ho mai mollato”

“Da piccolo puntavo a vincere il più possibile per essere fonte d’ispirazione, io sono il classico esempio che ne ha passate di tutti i colori, ma nonostante tutto ha creduto in un sogno e ce l’ha fatta, scriverlo è stato un viaggio per me che ho provato a raccontare agli altri”

“Le difficoltà ci saranno sempre ma saranno occasioni”

“Mi ritrovo davanti la copertina “L’uomo dei Sogni”, e adesso che faccio?”

“Al 20 luglio con 40 gradi erano tutti al lago di Garda io in pista da solo ad allenarmi, me lo sono costruito, non ho super poteri”

Italvolley, i campioni del mondo siamo noi

(Sforo il numero di citazioni, erano troppi)

“Ma io direi soprattutto speciale, questi ragazzi hanno fatto qualcosa di speciale, qualcosa di straordinario in così poco tempo” (Fefè De Giorgi)

De Giorgi è un cabarettista prestato al mondo del volley” (Andrea Zorzi)

Con la Francia ho fatto i punti decisivi perché non ho pensato” (Daniele Lavia)

“Lavia non meritava solo il premio individuale ma quello di Mvp del mondiale” (Fefè De Giorgi)

“Due o tre cose danno fastidio a Fefè la prima è dire “Ci sto provando”, per lui bisogna fare, e poi si arrabbia se siamo superficiali, e se bestemmiamo” (Simone Anzani)

Per me la parola giusta per questo mondiale è stata goduria ma non perché abbiamo vinto davanti a 13 mila polacchi, anche se la voce gliela abbiamo fatto abbassare, ma perché ci siamo goduti ogni momento” (Simone Anzani)

Sacrifico tanti minuti è vero, ma ogni cosa buona che fa lui (Giannelli) sono felice come se la facessi io” (Riccardo Sbertoli)

Anche nei momenti di difficoltà sapevamo dove stavamo andando” (Alessandro Michieletto) 

“Sono ragazzi giovani che hanno fatto un’impresa, questo è un messaggio comunicativo importante non solo per la pallavolo, non solo per lo sport, ma per la vita” (Fefè De Giorgi)

In stanza urlano come i matti, giocano a Mario Kart, ecco quali sono le fondamenta di questa nazionale? Mario Kart, l’allenamento è solo di passaggio” (Fefè De Giorgi)

“Festeggiare con sobrietà, deprimersi con coraggio, questo è il ruolo dell’allenatore” (Fefè De Giorgi)

Grace la mia gatta ha guardato tutte le partite, non so cos’abbia capito, ed era con me quando ho fatto le convocazioni, ho messo una foto mia 7000 mila like, ho messo una foto di Grace con la medaglia 55 mila like, allora metto sempre lei” (Fefè De Giorgi)

Foto Il Festival dello Sport

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Ho letto che un passo di una persona alta circa 1.70 corrisponde a 60 centimetri, questo significa che per compiere mille metri servono circa 1667 passi, moltiplicato per diecimila si arriva a 16.670. Ora io non sono quanti ne abbiamo compiuti Yeman Crippa ieri sera quando si è laureato campione europeo in questa disciplina, ma credo saranno una piccolissima parte rispetto a quelli fatti dal 2003 ad oggi. Ed il 2003 non è il suo anno di nascita, ma il suo anno di rinascita.

Il 2003 è l’anno in cui Yeman ed altri otto bambini (fratelli e cugini) iniziano ad essere portati in Italia dall’orfanotrofio a 300 km da Addis Abeba, in Etiopia. Quest’operazione durerà cinque anni e sarà mossa da un gesto d’amore straordinario ad opera di Roberto Crippa e Luisa Fricchione, una coppia di coniugi milanese che decide di allargare a vista d’occhio la famiglia. Yeman e Nera sono i fratelli più grandi, poi Kalamu, Gadissa, Mekdes, Elsa, Asnakec, Mulu, e Uonishet, nove, i figli erano nove, Uonishet purtroppo non c’è più a causa di un incidente in Etiopia avvenuto qualche anno fa.

Come si fa con tutti questi bimbi in casa e tante bocche da sfamare? “Il cibo non è mai mancato e per fortuna la nostra abitazione aveva diverse stanze, ma sui vestiti abbiamo optato per il riciclo, le marche non erano ammesse, non si andava a sciare in inverno, nessuna vacanza eccessivamente costosa d’estate, io credo che sei sobrio i soldi te li fai bastare anche se sei un agente di commercio prima ed un badante poi“, ha affermato il signor Crippa nel 2008 (fonte repubblica.it) quando il Presidente Mattarella ha voluto premiarli con l’onorificenza italiana per lo straordinario gesto di solidarietà.

Poi succede che le cose non sempre vanno come le hai programmate, i genitori si separano, la famiglia si trasferisce in Trentino ma basta l’amore per non gettare ombre su un futuro che da incerto aveva ritrovato la luce. Ognuno di questi ragazzi, oggi, ha imboccato la sua strada, c’à chi fa il cameriere, chi la commessa, chi la parrucchiera e chi l’atleta. Anche Neka lo è. Yeman è nel gruppo delle Fiamme Oro e dopo il calcio ha scelto l’atletica, mentre l’atletica sceglieva lui. Correre per scappare, correre per andare lontano, correre per sentirsi vivo e divertirsi. “Non mi accontento di questo bronzo – ha dichiarato ai campionati europei di Monaco dopo il terzo posto nei 5.000 – vedrete nei 10.000, ci sarà da divertirsi”. Così è stato. Con quel finale che era tutto un programma o forse un destino già scritto. Il resto lo hanno fatto l’esultanza alla Ronaldo, i “muscoli alla Marcell Jacobs che io non ho” ed il giro d’onore con il tricolore sulle spalle. In un’estate di Inno d’Italia cantato più e più volte a squarciagola, questo forse, lo abbiamo sussurrato appena. Aveva il sapore della rivincita, non tanto sul norvegese o sui due atleti francesi bruciati nel finale, quanto sulla vita, una vita che Yeman Crippa ha saputo rimodellare a forma di un paio di labbra con gli angoli all’insù.

C’è un amore che smuove il mondo, diecimila metri fanno appena il solletico.

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foto GRANA/Fidal

Sdraiatevi per terra, tenete gli occhi ben aperti e poi ditemi cosa vedete a 230 centimetri dalla punta del vostro naso. Il soffitto potrebbe non essere troppo lontano, in questo periodo dell’anno troverete sicuramente qualche insetto che svolazza da quelle parti, magari pure un sogno potrebbe passare di lì e non vi basterà allungare la mano per afferrarlo. Se la stessa domanda la facessi a Gimbo Tamberi io so cosa risponderebbe: lui a 230 centimetri da terra trova sempre e solo una cosa, trova il filo a cui è appesa la sua esistenza. Saltare oltre non è questione di vita o di morte, è molto di più.

Gimbo Tamberi ha una storia che parla per sé e che racconta l’inimmaginabile, racconta la perseveranza, i sogni infranti e defibrillati quando la linea sembrava già piatta, racconta la bellezza e la fatica dell’impossibile e di un eroe che quell’impossibile decide di appallottolarlo e gettarlo in un cestino. E tutte le volte che scende in pista aggiunge una pallina di carta in più a quel secchiello ormai strabordante.

L’urlo di Munch, ieri sera, è diventato l’urlo di Munich e ancora una volta a prendere fiato a pieni polmoni e a gridare più forte di tutti è stato Gimbo Tamberi, l’uomo delle mission impossible. E con lui lo hanno fatto quelli che lo hanno amato dalla prima volta e quelli che hanno imparato ad amarlo nel tempo, credendo in un talento smisurato, in una abnegazione fuori dal comune ed in un’espressione un po’ sfacciata giudicata forse troppo in fretta agli albori di una carriera che finalmente mette d’accordo tutti.

Il volo pindarico costruito in una Monaco 2022 buia ha acceso nuovamente la luce, è andato oltre il covid, la pedana bagnata, gli acciacchi di una stagione imperversa e come sempre ha trovato la rima baciata in un mood mentale che ora fa scuola. Gimbo Tamberi è il più classico dei campioni moderni che ha saputo coltivare il talento, diversamente non saremmo qui a raccontare di lui; ed intanto lui racconta di noi, indossa la maglia azzurra, ci abbraccia e ci trascina a soffrire di vertigini: amarlo, adesso, non basta più, dobbiamo essergli grati di tutti i posti qualunque in cui ci porta e che con la sua energia trasforma in magici.

“Capitano mio capitano”, che dispensa saggezza e sorrisi e discorsi da “Polase scansati proprio” ad ogni spedizione, anche la forza di gravità si è dovuta arrendere alla sue ali ed io darei qualcosa di più prezioso dell’oro che ha al collo per poter scrivere il suo libro, la sua storia, che altro non è che la storia di un ragazzotto marchigiano che semplicemente ce l’ha fatta.

Nella foto Francesca Grana/Fidal, emozioni, olio su tela.

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La mia esperienza romana la mettiamo in bacheca con un giorno tre e quattro da far girare la testa perchè “Rome swim Rome” porta i centimetri di pelle d’oca dai 100 (rana) ai 1500 (stile libero) senza preavviso.

Non faccio classifiche ma faccio considerazioni sparse per chiudere il mio personalissimo cerchio di quest’avventura estiva mentre gli Europei di nuoto continuano a regalare emozioni anche a distanza e con uno schermo di mezzo.

– Se un giorno dovessi avere un figlio lo chiamerò GiorgioMinisini tutto attaccato. Se l’Italia detta legge è perchè il nuotatore artistico romano si presenta in acqua con la leggiadria di Roberto Bolle e la determinazione di Roberto Carlos con palla sul mancino. Vola nella piscina del nuoto sincro come se facesse questo sport da sempre, lui da sempre (per colpa di mamma coach) lo fa per davvero peccato che fino a poco tempo fa non era previsto in versione maschile. Ora se sia stato lungimirante o abbia solo avuto una botta di culo non è dato sapersi, resta il fatto che si presenta alle interviste da incallito giocatore del fantaeuropeo con imbarazzanti occhiali da sole e dediche ai limiti della credibilità, ma vincenti.

– Il tridente delle suore modenesi spopola sulle tribune del foro italico. “Rome swit Rome” è un pubblico incandescente che non ti aspetti ma che raggiunge l’apice con Elisa, Aurora e Greta tre suore francescane fans di Paltrinieri e Minisini (su tutti); alcune cronache locali non si lasciano sfuggire lo scoop di un possibile poker entro Parigi 2024, i bookmakers quotano la Mary Seven a 2.5; in effetti mi ero accorta da un certo “non so che” di essere sulla strada buona già da un pezzo.

– Benedetta Pilato a 17 anni vince titoli europei spuntandoli con la biro dalla lista della spesa. Io a 17 anni ascoltavo i Ragazzi Italiani con “Vero Amore” e credevo che di lì a poco sarei diventata grande.

– Ho messo tre kg con i tramezzini di Casa Arena, quando sono entrata mi hanno regalato una maglietta taglia S, quando sono uscita se la sono ripresa con disprezzo affibbiandomi una xxl e sguardo alla “Ci scusiamo per il disagio” (testo di Trenitalia, dirige l’orchestra Frecciarossa).

– Nell’estate del 2009 il brasiliano Cielo ai Mondiali di Roma vinceva la medaglia nei 100 sl con il crono di 46.91, record del mondo. Nell’estate del 2022 il rumeno David Popovici, grande fan di Erliing Haaland, alla veneranda età di 17 anni decide che è il momento di far crollare questo wr e con 46.86 dice: “Signori e signore la maggior età è solo un numero, per chi ancora non lo avesse capito, da oggi comando io”. Fra dieci anni potrò ancora dire: io c’ero. Mi inchino.

– Per chi stesse ancora aspettando le dichiarazioni dei ranisti italiani su Rai Due post medaglie nella gara dei 100, niente paura: cercatele su Rai play e saprete tutto del TG2. (Icona con la mano in faccia).

– Siccome la pazienza è la virtù degli altri ma non la mia, Nicolò Martinenghi l’ho intervistato di persona, spero che alla Rai non dispiaccia. E tra l’altro gli ho trovato un difetto, è interista. (Orgoglio varesotto 😍)

– Io eclettica come Thomas Ceccon lo sono stata solo a scuola quando inventavo novecento scuse per non essere interrogata in inglese (compresa l’imboscata dentro la cartella); per parlare del nuotatore veneto io scomoderei “Dio” Michael Phelps. Con umiltà sia chiaro.

Gregorio Paltrinieri è nella top ten dei dieci sportivi italiani più forti di sempre? Sì. Mio parere personale. Sbaglierò? Amen (Cassano docet). The King.

– “Scusate da qui per andare alla stazione termini che bus devo prendere? “Fai così, così e così, tutto chiaro?”. “Certo”. Ho speso 22.5 euro di taxi. Ma ho una dignità e non ve lo racconterò che ho preso il 32 nella direzione sbagliata, che me ne sono accorta solo al capolinea, che per non perdere il treno ho dovuto prendere un taxi e che ho dovuto pure corrompere l’autista per arrivare in tempo, il che mi è costato 12 anni di vita vista la guida alla Max Verstappen. E non insistete, perché ho detto che ho una dignità e non ve lo racconterò.

B&B Chez Livia & (la mia preferita) Maybe: voto 10-. Il meno è chiaramente dettato dalla rottura con fiamma e scintilla dell’arricciacapelli (fondamentale in questi giorni di tasso umidità 112%), ma tutto il resto, e come sempre, è stato perfetto 💙

– Finché non mi seppelliscono sto con te, Carbonara di Cave Canem.

Rome swim Rome, grazie di tutto e ci vediamo presto…Daje!

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Cerimonia di premiazione, alzati in piedi, mano sul cuore e via con l’Inno; cerimonia di premiazione, alzati in piedi, mano sul cuore e via con l’Inno; tasto repeat e moltiplica per cinque. Che figata! C’è un’Italia del nuoto che va fortissimo, vederla dal vivo, festeggiarla con migliaia di persone, abbracciare sconosciuti, d’un tratto fratelli, è adrenalinico e romantico. Adrenalinico non sto manco a spiegarvelo perchè, romantico perchè nell’abbraccio stretto senti i cuori che battono all’unisono in un ritmo costante fino all’affanno dell’Italia Chiamò. Eppure la mia giornata in questo “Rome Swim Rome” (quanto mi piace questo slogan?”) non era iniziata propriamente così. Andiamo con ordine.

L’esperienza ATAC è qualcosa che devi vivere sulla pelle. E per sulla pelle intendo che devi proprio sentire ogni gocciolina di sudore scendere dalla fronte per attese spasmodiche sotto il sole cocente ad una qualsiasi fermata del bus. Trentacinque minuti d’attesa tendenti ai trentasette, valgono questo e molto altro. Nel molto altro vado a comprendere: amicizia con badante rumena. Ha abbandonato dopo 12 minuti. Badante peruviana solo di passaggio. Amicizia approfondita con badante filippina, unica superstite di una lunga attesa che mi ha sventolato il suo curriculum con tanto di punta nostalgica nel ricordare l’esperienza modenese: “Modena, bella sì, ma niente male, qui male più vicino”. Scusi ma in che senso niente male? Cioè voleva essere menata? “Ah ah, simpatica tu, niente male. Nuotale. Male”. Aaaaah mare. Boh forse non era proprio una punta nostalgica. Il tutto mentre la cassiera della Conad rincorre in ciabatte una vecchietta per darle il resto e Baloo, un pastore tedesco di 912 kg, cerca in tutti i modi di farmi pipì sulle scarpe. Poi in lontananza, il 911. Salva (forse).

swim rome
Nicolò Martinenghi LEN-Roma 2022

E con queste premesse mi avvio allo stadio del Nuoto. Riesco a sbagliare la fermata nonostante gli annunci dell’altoparlante, e più passa il tempo e più mi rendo conto di aver bisogno di ferie nonostante sia in ferie. Una delle trovate più geniali che avrò sarà quella di gustarmi il pranzo sul prato zuppo d’acqua della zona nebulizzatori: risultato chiappe bagnate per tutto il giorno ed alone sui jeans degno di una delle mie abilità più grandi in assoluto, fare i gavettoni. Nella maggior parte dei casi li faccio agli altri però, ci tengo a precisarlo.

Al villaggio approda anche il Gennari. La presentazione è degna del personaggio: un paio di kg di Amatriciana maldestramente camuffati con una camminata di 4 km, una maglietta da buttare ed un cellulare scarico senza traccia di caricatore nello zaino. Lo adoriamo così.

Il tripudio del pomeriggio azzurro parte dall’oro che Minisini si (ci) regala nel nuoto artistico. E scivola via con il trionfo di Margherita Panziera nei 200 sl, di Thomas Ceccon nei 50 farfalla, di Nicolò Martinenghi nei 100 rana e di Simone Quadarella negli 800 sl, quest’ultima profeta in patria e lanciata sui social anche da un messaggio del capitano della Roma di Lorenzo Pellegrini. Nel mezzo mettiamoci anche gli argenti di Federico Poggio nei 100 rana e della staffetta 4×100 mista mista. Così, per non farci mancare nulla. Ma se credete che fra di loro si nasconda l’eroe di giornata, vi sbagliate di grosso.

Semifinale dei 200 dorso. In corsia quattro si presenta il francese Yohann Ndoye Brouard. E niente mentre tutti partono resta con il blocchetto tra le mani. Piovono “Mon Dieu”, “Manaccia a la putain” e “Libertè Egalitè Fraternitè torna a casa sto Mbappè” (che sa tanto di Euro 2020). Il suo momento viene rimandato a fine giornata. E quando parlo di suo momento parlo di una gara da solista in corsia 4. Che poi io, nel dubbio, ne avrei scelta un’altra. Ma dopo la scorpacciata di ori il pubblico ha ancora la forza di sostenerlo e di proclamarlo eroe di giornata. Lui nel frattempo si prende la finale. E tanti saluti. Rome Swim Rome.

Off topics di giornata.

  1. Ho ufficialmente deciso che l’attesa di un bus ATAC è equiparabile solo all’attesa di una gioia.
  2. La sauna non fa dimagrire altrimenti chiederei residenza nel tendone del nuoto artistico.
  3. Quanto sei bella Roma quann’è sera (Grazie Liviuccia per un mini giro turistico che non passa mai di moda) 😍

foto Len Media

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Undici maggio – undici agosto, tre mesi esatti e poi ditemi che non esistano coincidenze. Torno a Roma per uno splendido “Rome Swim Rome” dopo quella sensazionale esperienza con i The Jackal, con Juve – Inter, con la finale di Coppa Italia rimasta stretta stretta come un nodo in gola difficile da sciogliere, ma anche con la grande consapevolezza di essere più coraggiosa di quanto abbia mai creduto fino a quel momento.

Cogliere le occasioni e salire sui treni in corsa, non è roba da tutti. E siccome io non sono tutti, e questo ora lo so per davvero, potevo forse non presentarmi agli europei di nuoto a Roma? È così che arrivo allo Stadio del Nuoto, con l’Olimpico sullo sfondo, le gambe che tremano il giusto e tante, troppe farfalle nello stomaco.

La mattinata scorre veloce, gli atleti italiani fanno esattamente quello che devono fare, io mi vivo ogni centimetro di questo villaggio europeo. Mi piace come è organizzato, con spazi creati ad hoc per tutti, dal turista, al tifoso, al giornalista. Nell’aria c’è una freschezza ed un entusiasmo che non percepivo da un po’ e quando quell’entusiasmo si mischia ai mille colori di altrettante bandiere, è la combo perfetta per un inizio di “ferie” con i fiocchi.

La cerimonia inaugurale racconta proprio questo ed in ogni discorso e saluto di tutte le autorità che vanno via affacciandosi su Roma 2022 spicca tanto la condivisione, la vicinanza, quanto la possibilità tornata galoppante di essere finalmente pronti a godersi dal vivo, di nuovo, tutto questo. E tutto questo non è solo un europeo di nuoto, ma è un portone che si spalanca di fronte all’opportunità e alla voglia di credere che l’Italia sappia sempre cosa deve fare in queste circostanze e che piano stia persino imparando tempi e modi. Guai a dimenticarsi di Federica, Lea e Gastone. La prima è la madrina dell’evento, di cognome fa Pellegrini e forse qualcuno la conosce pure (in una forma smagliante), Lea e Gastone sono i due cani da salvamento, formidabili.

Il day one di “Rome Swim Rome” è un concentrato di emozioni ed adrenalina. Se “Casa Arena” vale di più (molto di più) di una sala stampa, il nuoto sincro azzurro si tinge d’argento mentre poche ore dopo nei 400 misti Alberto Razzoli riesce già a farci cantare l’inno. Un paio di gradini più in giù c’è Pier Andrea Matteazzi che si aggiudica la medaglia di bronzo; e poi ci sarà una staffetta 4×200 sl che grazie a Stefano Di Cola completerà una rimonta da secondo posto.

Le altre tre note super liete di giornata sono:

  1. Le due postazioni dI ventilatori che spruzzano acqua (termine tecnico nebulizzatori per chi stesse già procedendo all’acquisto su Amazon)
  2. Il Fantaeuropeo: ebbene sì, c’è ancora spazio per le malate di Fantacalcio come me (per info vedere le mie stories su IG e per doppia info “Daje Mary Seven Team”).
  3. Questo dialogo: “Mamma ma i genitori dei campioni dove si siedono?”. “Si siedono là, perchè?”. “Perchè allora quando sarà un Campine di nuoto anche tu verrai a vedermi e sarai seduta là”. 😍

foto Federnuoto
foto Len Media

C’è una lunga storia che racconta come nel calcio, nel volley e nello sport in generale, le bandiere non esistano più ed a questo concetto ci si aggrappa col pensiero fisso che il rispetto e la passione siano in disuso. Ma accanto a questa storia ce n’è un’altra che vive in penombra, che di rado si prende le copertine e che milita in un’orbita in cui gli Ivan Zaytsev di turno siano merce quasi troppo rara da dover riservar loro un paio di guanti ad hoc.

Eppure…varrebbe la pena, talvolta, non lasciar cadere i discorsi e non darli troppo per scontati, perchè c’è storia e storia, ci sono bandiere e bandiere. Quattordici anni ed oltre 250 partite sono i numeri da wikipedia e statistiche che valgono menzioni negli annali storici dello sport italiano e restano indiscussi.

Ma io che, povera illusa, continuo a credere che lo sport non sia solo numeri, mi chiedo anche perchè l’epilogo di certe storie non prenda mai o quasi mai la forma che auspicherebbe verso un dorato punto fermo (e a capo). Perchè non è questione di lieto fine, le favole non sempre ce l’hanno e questo non cancella il percorso fatto, ma è questione di fine degna, meritata, ovattata in una dimensione di pace. E fortemente umana, giusta.

In merito alla non convocazione di Ivan Zaytsev per il prossimo mondiale di volley, vorrei mettere sul banco tutto tranne che le questioni tecniche. Il CT Ferdinando De Giorgio ha preso una decisone che quanto a logica non fa un piega, imprescindibile, ragionata e forse anche onesta. Ma è qui che subentra l’inconscio, ed è qui che i modi fanno la differenza. La maggior parte delle persone che non sposano questa decisione (e ad onor del vero ne conto anche una buona parte in pieno accordo con De Giorgi), si aggrappa a quei mille km fatti solo per sentirsi dire un “Sei fuori”. Occhi negli occhi. Da uomo a uomo. Nudo e crudo ma con un certo senso di responsabilità che non biasimo.

Quello che più discuto sta nel far vivere una Nations League da comparsa, senza una dovuta, elegante e, a mio modo di vedere, giusta passerella. Perchè la non convocazione di Ivan Zaytsev ai Mondiali 2022 è la chiusura di un cerchio. È un riporre la maglia azzurra nel cassetto e sapere che quei colori non saranno più casa tua, la tua corazza, il tuo vanto. È una bandiera ammainata senza vento. E l’abbraccio dal vivo di un popolo per cui hai dato tutto, sarebbe stato così stretto da sciogliere ogni amarezza, forse anche quella di un’ultima mancata convocazione ad un mondiale.

Dal 2008 ad oggi. Con quei tre ace in semifinale olimpica che ancora mi rimbombano negli occhi e che fanno vacillare le pareti del mio cuore (e di casa) e che pochi giorni dopo avrebbero meritato qualcosa di più di un vestito d’argento.

Per l’addio non sono pronta, e allora arrivederci Zar e grazie per ogni singola emozione. Sai il bello dello sport è che riesce sempre a sorprenderci, nel bene e nel male. Chissà che l’utopistica Parigi 2024 non abbia in serbo un asso nella manica, magari un touch visto al review, o un insperato ace di un paio di millimetri.

foto Ivan Zaytsev – fratellanza olimpica