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L’urlo di Munich: sopra ogni cosa, Gimbo Tamberi

gimbo tamberi

Sdraiatevi per terra, tenete gli occhi ben aperti e poi ditemi cosa vedete a 230 centimetri dalla punta del vostro naso. Il soffitto potrebbe non essere troppo lontano, in questo periodo dell’anno troverete sicuramente qualche insetto che svolazza da quelle parti, magari pure un sogno potrebbe passare di lì e non vi basterà allungare la mano per afferrarlo. Se la stessa domanda la facessi a Gimbo Tamberi io so cosa risponderebbe: lui a 230 centimetri da terra trova sempre e solo una cosa, trova il filo a cui è appesa la sua esistenza. Saltare oltre non è questione di vita o di morte, è molto di più.

Gimbo Tamberi ha una storia che parla per sé e che racconta l’inimmaginabile, racconta la perseveranza, i sogni infranti e defibrillati quando la linea sembrava già piatta, racconta la bellezza e la fatica dell’impossibile e di un eroe che quell’impossibile decide di appallottolarlo e gettarlo in un cestino. E tutte le volte che scende in pista aggiunge una pallina di carta in più a quel secchiello ormai strabordante.

L’urlo di Munch, ieri sera, è diventato l’urlo di Munich e ancora una volta a prendere fiato a pieni polmoni e a gridare più forte di tutti è stato Gimbo Tamberi, l’uomo delle mission impossible. E con lui lo hanno fatto quelli che lo hanno amato dalla prima volta e quelli che hanno imparato ad amarlo nel tempo, credendo in un talento smisurato, in una abnegazione fuori dal comune ed in un’espressione un po’ sfacciata giudicata forse troppo in fretta agli albori di una carriera che finalmente mette d’accordo tutti.

Il volo pindarico costruito in una Monaco 2022 buia ha acceso nuovamente la luce, è andato oltre il covid, la pedana bagnata, gli acciacchi di una stagione imperversa e come sempre ha trovato la rima baciata in un mood mentale che ora fa scuola. Gimbo Tamberi è il più classico dei campioni moderni che ha saputo coltivare il talento, diversamente non saremmo qui a raccontare di lui; ed intanto lui racconta di noi, indossa la maglia azzurra, ci abbraccia e ci trascina a soffrire di vertigini: amarlo, adesso, non basta più, dobbiamo essergli grati di tutti i posti qualunque in cui ci porta e che con la sua energia trasforma in magici.

“Capitano mio capitano”, che dispensa saggezza e sorrisi e discorsi da “Polase scansati proprio” ad ogni spedizione, anche la forza di gravità si è dovuta arrendere alla sue ali ed io darei qualcosa di più prezioso dell’oro che ha al collo per poter scrivere il suo libro, la sua storia, che altro non è che la storia di un ragazzotto marchigiano che semplicemente ce l’ha fatta.

Nella foto Francesca Grana/Fidal, emozioni, olio su tela.

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