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Settordicimila domande e nessuno che chiede più: “Sei felice?”

Già, è proprio così: settordicimila domande e nessuno che ti chiede più se sei felice.
Pochi giorni fa mi sono imbattuta in un pezzo sul web che parlava proprio di questo, di richieste, di frasi abitudinarie, di etichette e di superficialità. Null’altro che sconfinasse in qualcosa di più profondo, qualcosa di reale oltre il materiale, o che si avvicinasse vagamente al concetto di felicità.

Ogni giorno viviamo in una società che ci tartassa di domande nelle circostanze più svariate. La quotidianità ci porta ad imbatterci nella consuetudine, nell’ovvietà, nella catalogazione di persone che, più o meno volontariamente, etichettiamo a seconda del lavoro che svolgono o dei loro rapporti sentimentali.

A partire dalla conoscenza di due persone che nasce inevitabilmente con un “Mi chiamo Giulia e tu?” si prosegue con il quiz che conduce a delineare il profilo esatto di una persona. Studio, lavoro, amici, casa, auto, sei sposato, hai figli, dove vai in vacanza, quanto costa la tua borsa, ti piace Ligabue, preferisci questo o quello e bla bla bla…ma nessuno più che osa porti l’unica domanda che conti davvero: sei felice?

L’apoteosi dell’assurdità è che ci divertiamo a creare un archivio mentale su risposte che nemmeno ascoltiamo e su domande di cui non ci prendiamo cura trasformandole, nella maggior parte dei casi, in convenevoli adatti alla circostanza.

E poi eccola qui l’arma letale: la superficialità. Provare a scavare è vietato, approfondire è fuori moda, interessarsi una fatica immonda. Allora restiamo lì nel limbo delChiedo ma non troppo” e del “A debita distanza per non incappare in grossi rischi“. Ma passare al Metal detector con in tasca un “Sei felice?” non permette più di salire sull’aereo dell’atterraggio sicuro, quello delle quote basse e dei paesaggi scontati. Se solo ogni volta dopo un “Come stai”, un “Cosa fai di bello” o un “Ti piace il pistacchio” ci aggiungessimo un “sei felice”, ci accorgeremmo che non solo il Metal detector si tratterebbe nell’emissione di qualunque suono, ma che l’aereo di terza classe lascerebbe posto al velivolo con rotta verso l’infinito, quello dei paesaggi inesplorati, delle mete a malapena disegnate nelle nostre menti dei percorsi inesplorati. Ma non è tutto: il “Sei felice” implica impennate di buon umore, implica interesse e genera interessa, implica spunti di riflessione e dà il là a conversazioni più ampie, cestina i convenevoli, vi veste di un abito che fa luce sui sogni pieni di polvere, lustrando ambizioni ed autostima, che non guasta mai.

E così oggi quando vi troverete al bar a bere il caffè, quando vi scambierete favori con un collega, quando vostra madre vi preparerà la cena o il vostro vicino sarà alle prese con il taglio del prato, provate ad avvicinarvi e buttatelo lì un “Sei felice?”, sarà sorpresa, estasiato, incuriosito. Magari vi prenderà anche un “Che cazzo di domande fai” e verrete guardati un po’ straniti ma attendete una risposta. Non giudicatela per nessun motivo al mondo, guardate negli occhi il vostro interlocutore e, con quello sguardo fate un controllo incrociato per vedere se “tutto combacia”. Che tanto di parole possiamo dirne e raccoglierne milioni, la verità è sempre racchiusa lì.

Tutti quelli che incontri ti chiedono sempre se hai un lavoro, se sei sposato o se possiedi una casa, come se la vita fosse una specie di lista della spesa. Ma nessuno ti chiede mai se sei felice“.
– Heath Ledger
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